BARAGIANO (PZ) – Nel pomeriggio di qualche giorno fa sono stato raggiunto, casualmente, dalla notizia della morte di un uomo, un uomo vero, che ha segnato in positivo la storia di diverse famiglie con tutte le loro ramificazioni. Parlo di Giuseppe Gliubizzi, detto Peppino, che non vedevo dal lontano 13 luglio 1987 giorno in cui, sempre casualmente, lo incontrai nei pressi della sua casa di Baragiano in provincia di Potenza, dove è rimasto dalla nascita alla morte attaccato alle sue radici profondamente lucane e dove ha sempre vissuto la sua vita di uomo, di politico, di insegnante. Nonostante le pressioni e le spinte, verso il cambiamento e la trasmigrazione in località cittadine, che venivano dai suoi figli tutti professionisti dislocati in varie località italiane. Questa in estrema sintesi era l’uomo che avevo conosciuto nella notte dei tempi, o quasi; eppure l’altro giorno (lunedì 15 maggio scorso) la notizia della sua morte mi ha colpito, quasi ferito e sconvolto; e mi sono chiesto perché la notizia della morte di un uomo che non vedevo da trent’anni mi aveva colpito, ferito e sconvolto fin nel profondo del mio animo. Non ho tardato molto a darmi la risposta: “perché quell’uomo dal grande potere carismatico era riuscito ad entrare indelebilmente nel mio immaginario di giovanotto non ancora diciottenne fino al punto di rappresentare una sorta di faro ideale che ha guidato molti momenti e passaggi della mia vita”. Non soltanto della mia, naturalmente; anche quella di tutti i giovanotti diciottenni di quelle famiglie di cui sopra (Bianchini – Gliubizzi – Di Carlo, ecc.) che spesso si riunivano, agli inizi degli anni ’60, in casa di una congiunta signora anziana, molto anziana, che tutti amavamo chiamare “zia Rosina”; la casa si trovava in un palazzo sito in Piazza Municipio (ora Piazza Abbro) di Cava de’ Tirreni e il suo portone di accesso già di per se incuteva a tutti noi quel doveroso rispetto reverenziale non soltanto dovuto alla vetustà dell’edificio. E mano a mano che quelle rimpatriate dal gustoso sapore di famiglia allargata venivano riproposte ciclicamente, grazie all’infaticabile equilibrismo di mia cognata Antonietta, di pari passo aumentava in noi giovani rampolli la stima e la fiducia in quell’uomo compassato, sicuramente con una vita vissuta alle sue spalle (il lato che ci affascinava di più), che si ergeva a nostro educatore in quanto le sue lunghissime chiacchierate erano semplicemente delle profonde e irrinunciabili lezioni di vita che aprivano la nostra visione sui piccoli e grandi temi a 360 gradi. Certo !!, avrà avuto anche dei difetti come tutti i comuni mortali ma altrettanto certamente quei difetti venivano sommersi dalla sua grande capacità di stare e di muoversi sulla scena della vita. Perciò non era possibile entrare in collisione con lui che sapeva gestire alla perfezione ogni passaggio sia della vita familiare che di quella di relazione con il mondo esterno. E noi giovanotti eravamo lì, quasi incantati, dalle sue parole e dalla sua gestualità che non andava mai oltre l’essenziale effetto fisico e psicologico che voleva imprimere al suo parlare; prima di dire attivava sempre il cervello, parlava benissimo, la dialettica era il suo forte, mai una parola in più del necessario, mai una riproposizione di cose già dette, mai una ovvietà; il suo incedere dialettico era sempre calibrato e riusciva a colpire l’immaginario di tutti noi. Parlava di politica, quella con la “P” maiuscola, che amava al di sopra di se stesso; è stato sindaco di Baragiano per un paio di decenni; amava la democrazia prima di ogni altra cosa. E non perché militava nell’allora Democrazia Cristiana ma soltanto perché era un uomo dal grandissimo spessore culturale e democratico, in senso lato. Come spesso accade agli uomini migliori dalla politica non ha mai avuto niente in cambio o quanto meno non gli è stato restituito quello che ha dato, veniva chiamato “il sindaco della gente” perché dava alla sua comunità tutte le sue forze attive fino al punto di trascurare spesso gli impegni e gli appuntamenti familiari.
Probabilmente devo a lui, soltanto a lui, la mia passione per la cronaca giudiziaria che ho seguito fin dagli anni ’60, una passione alla quale ho dato sfogo molto più tardi in qualità di giornalista. Una sera, durante le festività natalizie della fine del 1963 eravamo seduti intorno al tavolo della “zia Rosina” e mentre gli altri si accingevano a preparare gli attrezzi per la tombolata e poi per il pokerino tra maschi, non so come fu, mi venne di chiedergli qualche notizia su un caso giudiziario che all’epoca era ancora molto vivo, un caso che aveva sconvolto addirittura il governo del Paese. Il fatto era quello che è passato alla storia come il “caso Montesi”; una vicenda di cronaca nera avvenuto in Italia il 9 aprile 1953, che ebbe grande rilievo mediatico a causa del coinvolgimento di numerosi personaggi di spicco nelle indagini successive al delitto. Vittima fu la ventunenne Wilma Montesi (3 febbraio 1932 – 9 aprile 1953). Ancora oggi il caso risulta irrisolto, ivi compresa la causa del decesso della giovane. Si era parlato subito di suicidio, ma grazie alla perseveranza di due giornalisti (Riccardo Giannini e Marco Cesarini Sforza), ritenuti bizzarri e provocatori, il caso era esploso nel 1955 in tutta la sua sconvolgente verità con l’implicazione del figlio Piero (noto musicista) del notissimo politico Attilio Piccioni, vero monumento storico della Democrazia Cristiana, che all’epoca della morte della Montesi era vice presidente del consiglio dei ministri (con l’ultimo governo De Gasperi) e successivamente ministro degli esteri (con i primi governi Fanfani e Scelba). Addirittura Federico Fellini nel film “La dolce vita” si interessò al caso Montesi con esplicite allusioni cinematografiche.
Mentre Peppino parlava ed accompagnava la sua descrizione con una magistrale gestualità io mi incantavo sempre di più, tanto che con lui mi isolai completamente dal tavolo della tombolata. E continuò dicendomi che in quel caso (conclusosi all’inizio degli anni ‘60 dinanzi alla Cassazione con la conferma dell’assoluzione degli imputati) e da quel caso, ancora vivissimo nel 1963, c’era tutto e il contrario di tutto: i due giornalisti che durante il processo ritrattarono la loro prima versione dei fatti, l’impegno del grande penalista ormai ottantenne Francesco Carnelutti che con un’epica arringa difensiva aveva cercato di sminuire gli effetti della vicenda, la risonanza mediatica che ondivagamente si era mossa prima nel senso colpevolista e poi innocentista. Addirittura si raccontava che il capitano dei Carabinieri (spinto dall’ex fidanzato della Montesi che era stato poliziotto a Potenza e che Peppino aveva conosciuto) incaricato di bussare alla porta di casa del ministro, per arrestare il figlio Piero, si vide sbarrare il passo con un’altra frase storica: “In casa di un ministro non si entra senza il consenso del Parlamento”; qualche giorno dopo la porta si aprì perché Piccioni si era dimesso su intervento diretto dell’allora presidente del consiglio Mario Scelba. Il caso finì in una bolla di sapone ed ancora oggi rimane quasi completamente irrisolto.
La descrizione, quasi scenica, che Peppino mi fece quella sera del “caso Montesi” mi colpì in maniera molto particolare e da quel momento cominciai a coltivare la raccolta dei fogli di giornale che raccontavano i grandi scandali giudiziari del Paese.
Poi sempre quella sera ritornammo al tavolo perché dopo la tombolata per tutti iniziava il pokerino per noi maschietti; eravamo squattrinati ed ebbi la netta sensazione che a turno faceva vincere ognuno di noi per consentirci di rimpinguare le nostre magrissime risorse senza minimamente offendere la nostra dignità di giovanotti in crescita tumultuosa; e la cosa si ripeteva ad ogni occasione di riunioni familiari. Da fumatore incallito, sigaretta stretta tra le dita, ci osservava e noi capivamo che un giocatore abilissimo come lui non perdeva per caso.
Sinceramente pensavo che Giuseppe Gliubizzi, detto Peppino, quasi novantaquattrenne, fosse immortale tanta era la sua forza di convincimento nel racconto dei fatti di vita quotidiana, di vita vissuta, di politica e quant’altro necessario alla convivenza civile di intere comunità. Chi non ha avuto il piacere di conoscerlo non potrà capire le mie parole che possono anche apparire esageratamente enfatiche, mentre invece rendono soltanto in piccola parte lo spessore umano, sociale e culturale di un uomo, di un vero uomo, di quelli che nascono una volta ogni tanto.
Per questo, per tutto questo, la notizia della sua morte mi ha colpito e sconvolto; per me rimane sempre lì sulla sua sedia (quasi gestatoria) al centro dell’attenzione di tutti e per sempre.
Non vedevo Peppino da trent’anni e se è stato capace di imprimere nel mio subconscio un ricordo indelebile è il segno che è stato certamente un uomo vero, un uomo che è andato via in punta di piedi avendo nel suo dna un profondo senso di rispetto degli altri e dei loro ruoli.
Non capita a tutti di lasciare una testimonianza precisa su questa Terra, Peppino ci è riuscito donando a tutti noi un senso di responsabilità come bussola di vita.
Grazie.