Di Giuseppe Colasante
SALERNO – La mia palma della pace la vorrei scambiare con una donna che non so se sia viva o morta. Nei suoi confronti ho nutrito un profondo rancore che si è protratto per oltre sei decenni: è ora di farlo cessare anche perché forse era del tutto ingiustificato.
Si chiamava Angela, non chiedetemi che cognome portava, l’ho dimenticato o forse non l’ho mai saputo. Non ricordo neppure se l’ho mai conosciuta di persona, non saprei dire se era bella o era brutta. Quello che so è che era la fidanzata di mio zio Claudio che, fra tutti gli zii, materni e paterni, era di certo quello a cui più ero affezionato. Aveva conseguito la maturità scientifica con voti brillanti ma decise di non proseguire gli studi iscrivendosi all’università per non pesare sulla famiglia. Così scelse di arruolarsi nell’esercito italiano per fare l’ufficiale e, con il tempo, conseguire gradi più alti. Ma dopo alcuni mesi fu colpito da un male che a quel tempo era considerato, a ragione, un male assai grave, peraltro contagioso e in alcuni casi addirittura mortale. Si trattava niente di meno che di tubercolosi e l’esercito lo mandò a curarsi in un ospedale militare a Sondalo, in alta montagna, per fargli respirare aria fine da cui avrebbero tratto giovamento i suoi bronchi malati.
Si era all’inizio degli anni 50, io avevo sei anni, e Claudio Villa, attraverso le onde della Rai, faceva ascoltare agli italiani una canzone che, mi pare, avesse per titolo proprio Angela. Ricordo i primi versi, senza fatica li riporto a memoria: ” Angela, per questo addio non devi piangere, attendi, attendi il mio ritorno e poi vedrai che un lieto giorno tutto ci sorriderà “.
A mia madre la canzone piaceva, e sapeva cantarla, lo faceva mentre cucinava e mentre stava sul balcone di casa ad appendere i panni che aveva lavato e che ora avevano bisogno del vento e del sole per asciugare.
Mi piacerebbe sapere se anche mia madre mentre la cantava stabilisse un nesso con la vicenda che riguardava suo fratello. Io si.
Il fatto è che la fidanzata di mio zio Claudio, appena avuta la notizia che la tubercolosi lo aveva colpito, pensò bene di rompere ogni legame con lui. Aveva le sue buone ragioni, l’ho già detto, ciò non toglie che ai miei occhi la sua decisione apparve crudele e meritevole di ogni biasimo.
E’ la ragione per cui per oltre sessanta anni le ho portato rancore, un rancore che si è protratto per oltre mezzo secolo dopo la morte di mio zio Claudio.
Oggi faccio la pace con lei, la vecchiaia illumina i fatti con occhi nuovi, e tuttavia, a pranzo con i miei familiari, ad un certo punto ho cantato: ” Angela, per questo addio non devi piangere, attendi, attendi il mio ritorno e poi vedrai che un bel giorno tutto ci sorriderà “. E ho pianto.
Non piangevo per Angela, viva o morta che sia, piangevo pensando a mio zio Claudio e riascoltavo la voce di mia madre che, spensierata, anche da morta, fa rimbombare nella mia testa quei versi che porterò con me fino alla morte.