di Giuseppe Colasante
SALERNO – Il posto ero lo stesso, il giardino del palazzo degli Alfano, quello in cui cresceva il maiale a cui poi, cresciuto, si sarebbe fatta la ” festa”. Solo il tempo era diverso, il porco veniva ammazzato in pieno inverno, e bisognava stare ben coperti per proteggersi dal freddo pungente. Le bottiglie di pomodoro si facevano in piena estate, a fine luglio o, ancor meglio, ad agosto. Bisognava aspettare che fossero veramente mature! Non si andava dal fruttivendolo a comprarle, si andava da qualche contadino dell’agro nocerino, possibilmente nella zona di produzione del S. Marzano, la qualità in assoluto più pregiata. Ma bisognava essere esperti, altrimenti invece del S. Marzano il contadino ti rifilava la qualità “Roma”, più facile ad essere coltivata e che richiedeva meno cure. Al mercato c’era gran differenza tra il prezzo delle S. marzano e quello delle “Roma”.
Gli abitanti delle Casarse andavano nel Comune di S. Marzano sul Sarno o in quello di S. Valentino Torio a comprare le cassette di pomodoro. Ogni cassetta conteneva circa 25 Kg. di pomodori, e se ne compravano secondo le necessità familiari. Una famiglia di 10 persone consumava più bottiglie di quante ne consumava una famiglia di solo 4 membri, padre, madre e due figli. E’ lapalissiano, c’è bisogno di dirlo?
I miei genitori andavano a comprarne 4 cassette, giusto un quintale. No, non andavano, se le facevano portare da un contadino di S. Marzano che mio padre aveva conosciuto perché era il padre di un suo alunno alla scuola elementare. Arrivata a casa nostra i pomodori andavano lavati, si mettevano a bagno in grossi recipienti di stagno, le “bagnarole”, appunto, e poi si stendevano su grossi panni per farli asciugare. Qualche volta usavano uno straccio per togliere un residuo di verderame che non era venuto via con il bagno. Solo il giorno dopo si cominciava la lavorazione dei pomodori. Ci si alzava all’alba, quando il sole appena cominciava a scorgersi, si indossavano abiti leggeri sapendo che si sarebbero inevitabilmente sporcati e si iniziava il lavoro. Ad ognuno della famiglia spettava un compito specifico. Mio padre cominciava ad occuparsi di triturare i pomodori introducendoli in una apposita macchinetta azionata con una manovella. Non era un lavoro pesante, anche io ero capace di farlo, ma per pochi minuti, perché dopo i muscoli del braccio avvertivano la fatica. Mio padre, invece, era costretto a far quel lavoro per qualche ora. Intanto mia madre lavorava al setaccio per preparare il sugo che poi, seccato a dovere, diventava conserva, priva di buccia che rimaneva nel setaccio. Il succo di pomodoro prodotto triturato da mio padre finiva in una grande pentola, poi, con il mestolo e un imbuto, si riempivano le bottiglie che erano state messe capovolte perché fossero del tutto asciutte. Questo era un lavoro noioso, le bottiglie andavano riempite fino al collo ma bisognava che rimanesse un piccolo vuoto per aggiungere l’odore o il forte o l’odore e il forte. L’odore era dato dalle foglie di basilico fresco, il forte da qualche pezzetto di peperoncino piccante. Noi usavamo assai poco il piccante, ad uno solo della famiglia veniva assegnato quel compito con la raccomandazione di evitare di sfregarsi gli occhi se prima non si erano lavati le mani con molta cura. Un attimo di distrazione e si avevano lacrime e forti bruciori. Via via che le bottiglie venivano riempite bisognava “sigillarle” usando tappi di sughero. Talvolta, per fare più presto, i pomodori venivano tagliati in senso longitudinale in quattro parti e si infilavano nelle bottiglie senza essere passate nella macchinetta, poi si versava del sugo per riempire i vuoti che si erano creati. Per tappare le bottiglie si usava una macchinetta di legno, dotata di uno stantuffo, e ci si aiutava con un martello di legno. Lo stantuffo aveva uno percorso obbligato che via via si restringeva fino a rendere possibile l’introduzione del tappo nel collo della bottiglia. Poi il tappo riprendeva, per quanto possibile, la sua forma e solo con un cavaturaccioli era possibile toglierlo. Era finito il lavoro? Per niente! Ora veniva l’operazione più complicata e dolorosa: legare, con uno spago forte e sottile, il tappo alla bottiglia. Un nodo difficile, che, ripetuto più volte, anche usando uno straccio o un guanto per protezione, ti lasciava le dita segnate da tagli sottili.
Finalmente ora si poteva procedere a sistemare le bottiglie nel bidone poggiato su un trespolo dove sarebbero state sottoposte alla bollitura. Bisognava avere a disposizione molti fogli di giornale e piccole pezze di stoffa, servivano per essere inseriti tra una bottiglia e l’altra per evitare che si toccassero fra loro e si rompessero. Ora non restava che fare l’ultima operazione: accendere il fuoco dopo aver riempito il bidone con secchi d’acqua fino al suo orlo e aver poggiato un sacco di iuta tenuto pressato da tavole di legno su cui veniva poggiato un masso molto pesante. Occorreva molto tempo prima che l’acqua bollisse, e bisognava che bollisse per parecchio tempo per cuocere bene i pomodori nelle bottiglie. Qualche volta, finita la bollitura, si profittava della brace per arrostire dei peperoni o si mettevano, sotto la cenere, delle patate. Poi non c’era altro da dare che aspettare l’indomani quando l’acqua si sarebbe raffreddata. Si dava uno sguardo veloce all’interno del bidone per vedere se si vedevano galleggiare pezzi di pomodoro e questo avrebbe detto che qualche bottiglia si era rotta. Non se ne faceva un dramma era già messo in conto.
P. S. In genere la mia famiglia veniva aiutata da qualcuno della famiglia Alfano o della famiglia Mastroberardino. Ida Mastroberardino era la mia ” amichetta “, aveva i miei stessi anni, ma l’aiuto che più apprezzavo era quello di una cara amica e coetanea di mia madre, Gina Alfano, detta Ginetta, perché era molto prosperosa e io avevo modo, mentre lei setacciava i pomodori, di guardarle il seno ballare.