Aldo Bianchini
“La voce corre lungo il filo”, recitava così un vecchio detto; non è così per il sindaco di Scafati, Pasquale Aliberti, perché in questo caso “le voci si rincorrono negli ambienti politici” e vanno tutte in un’unica direzione: “Ma Aliberti si dimetterà davvero”. Ovvero Aliberti, almeno così si dice, si appresta a revocare le dimissioni rassegnate il 28 novembre scorso sull’onda emozionale della pronuncia del Tribunale del Riesame di Salerno (Gaetano Sgroia, Giuliano Rulli e Dolores Zalone) che contro tutte le previsioni ha accolto il ricorso della Procura delle Repubblica ed ha sancito la validità della richiesta di arresto avanzata alcuni mesi fa dal pm antimafia Vincenzo Montemurro e negata dal gip Donatella Mancini. La storia ci ricorda che, per la cronaca, il pm Vincenzo Montemurro in data 16 giugno 2016 aveva richiesto l’applicazione della misura cautelare di massimo rigore nei confronti di Gennaro e Luigi Ridosso e di Angelo Pasqualino e Nello Maurizio Aliberti (due fratelli). In data 28 giugno 2016 il gip Donatella Mancini rigettava la richiesta e, pur dando per scontato un accordo elettorale tra il sindaco Aliberti e i nuovi rampolli della criminalità organizzata del posto, stabiliva che lo stesso accordo non poteva essere ricondotto alla norma incriminatrice di cui all’art. 416 ter c.p. ma semmai al reato di corruzione elettorale sanzionata dall’art. 96 DPR 261/57, con la reclusione fino a 4 anni il candidato che per ottenere il voto “offre, promette e somministri denaro, valori o qualsiasi altra utilità”. In pratica il gip smantellava la teoria accusatoria della Procura non rilevando alcun nesso sostanziale di continuità del reato di “corruzione elettorale” tra le elezioni comunali del 2013 (candidato sindaco Pasquale Aliberti) e le regionali del 2015 (candidata consigliere regionale Monica Paolino) in quanto “”non è possibile sostenere che poiché nell’aprile 2015 fu data parziale attuazione al patto attraverso l’adozione della delibera (peraltro mai eseguita e poi revocata) del CdA della ACSE, con la quale si affidava l’appalto della pulizia dei locali della stessa ACSE alla società dei Ridosso, il fatto andrebbe ricondotto alla norma incriminatrice nell’attuale formulazione già entrata in vigore: è agevole infatti evidenziare che il momento di consumazione del reato è quella della formulazione del patto stesso, dell’impegno reciproco delle due controparti, indipendentemente dalla loro realizzazione, tant’è che il reato in esame ha natura di reato di pericolo, in cui la materiale erogazione del denaro ha una rilevanza solo probatoria rispetto all’avvenuta definizione del patto””. Sottile e in punta di diritto l’eccezione sostenuta dal gip quando in pratica afferma che un patto che aveva già dato luogo al reato di “corruzione elettorale” non poteva essere assunto a base anche del reato più grave di “scambio di voto politico-mafioso” solo perché l’adozione della delibera fu fatta nell’aprile 2015 (in prossimità delle elezioni regionali) dando luogo al nesso di continuità dell’associazione camorristica, in quanto era il patto da tener presente e non la delibera; e il patto era avvenuto subito dopo le comunali del 2013. Dal che evidenziava che non ricorrevano concrete esigenze cautelari degne di essere salvaguardate mediante l’applicazione di una misura coercitiva ed in particolare il pericolo di recidiva, non essendo in programma consultazioni elettorali di qualsivoglia genere involgenti il territorio di Scafati. Il Tribunale del Riesame, invece, ricostruendo la lunga teoria delle elezioni (comunali, provinciali, e regionali), sulla base di un’attenta e meticolosa riproduzione allargata delle indagini preliminari (ad opera del pm Montemurro e di tutto il suo staff), ha messo insieme i moltissimi tasselli dell’inchiesta partendo da molto lontano al fine di dimostrare che il giudizio sull’esistenza o meno di un’associazione camorristica finalizzata al voto di scambio e di una sostanziale continuità del reato di “corruzione elettorale” tra le varie elezioni fino a diventare “associazione politico-mafiosa finalizzata al voto di scambio” con la conseguente applicazione già prevista dalla Procura dell’art. 416 ter c.p. Il Riesame ha messo l’accento sui diversi aspetti dell’intera vicenda: 1) Un clan non si scioglie semplicemente con la morte del suo capostipite (Sebastiano Sorrentino) avvenuta nel 2004; 2) Nelle elezioni provinciali del 2009 un cartellone di propaganda pro Aliberti viene trovato in un deposito riconducibile alla famiglia Matrone; 3) Nel 2013 è la volta dell’appoggio del clan Ridosso/Loreto; Nel 2015 ancora una volta Aliberti cerca l’appoggio dei Ridosso per conto della moglie candidata alle regionali; 4) Se è vero che non ci sono imminenti elezioni è pur vero che l’appoggio della camorra è stato richiesto anche per altro tipo di competizioni, quelle del 2015 sono regionali, quelle del 2009 sono provinciali. Per queste considerazioni nel Riesame si rafforza la presunzione cautelare perchè dimostrano come l’Aliberti possa ancora fare accordi con la camorra nello svolgimento della sua attività politico amministrativa e che, quindi, non vi sono elementi per ritenere che le prefate esigenze cautelari possano essere soddisfatte con una misura diversa da quella di massimo rigore prevista dalla legge. In pratica, secondo il Riesame, la continuità temporale del reato è ravvisabile nel fatto che lo stesso è stato praticato in competizioni elettorali di diversa connotazione territoriale (comunali, provinciali e regionali), elementi questi che scavalcano l’assunto del gip che invece fermava la continuità nel momento del patto e non della delibera del servizio di pulizia; ma se si osserva attentamente la scaletta elettorale si può facilmente scoprire che da questa pretestata continuità rimangono fuori le elezioni comunali del 2008 e quelle nazionali del 2013; elezioni fondamentali per l’affermazione politica di Pasquale Aliberti che dopo le politiche del 2013 diventa, forse, il personaggio più importante dell’intero centro destra suscitando l’ostilità degli altri che potrebbero aver luogo ad un “fuoco amico” sull’impenitente Aliberti. La mia osservazione non è soltanto di natura politica ma attiene la storia stessa degli eventi che, così come il Riesame ha supposto nuovi accordi con la camorra, potrebbero dare la stura a supposizioni di natura complottistica in danno di Aliberti da parte dei suoi avversari scafatesi già a partire dal dopo elezioni nazionali del 2013 in previsione di quelle comunali dello stesso anno 2013 fino a quelle regionali del 2015. Chiaramente entrambe le supposizioni sono suggestive, e se le mie non trovano radicati fondamenti come prove conclamate, quelle della Procura e del Riesame si basano su molti elementi sostanziali che andrebbero, comunque, rivisti e discussi uno per uno, soprattutto dal punto di vista della continuità perché proprio per questo importante aspetto appaiono verosimilmente deboli. Ma ritorniamo all’allarme lanciato sul fatto che oggi, proprio oggi, il sindaco di Scafati possa essere indotto a revocare le sue dimissioni; una revoca che aprirebbe scenari assolutamente diversi ed imprevedibili. Anche in questo caso non ci sono prove certe ma solo surreali indiscrezioni che trovano, però, probabile radicamento negli avvenimenti di questi ultimi giorni tra Roma e Milano che spingono verso l’affermazione dell’innocenza fino a sentenza passata in giudicato anziché verso le dimissioni alle prime ombre di un’inchiesta giudiziaria. Resta, quindi, sullo sfondo l’eterno problema se rimanere al proprio posto o andare subito via. Ma c’è un altro argomento, non meno importante, che riguarda la “facoltà di non rispondere” per un amministratore pubblico-politico; nel prossimo articolo cercherò di analizzare il perché la consigliera regionale Monica Paolino (moglie di Aliberti) si è avvalsa di detta facoltà dinanzi agli inquirenti che l’hanno convocata a Napoli per interrogarla sui fatti di Scafati.