Sento parlare di crisi della giustizia da quando ho cominciato in anni ormai lontani la professione di avvocato e da quando frequentavo l’università.
All’epoca si pensava che la giustizia penale soffrisse del fatto che negli anni ’70 non si era riusciti a riformare l’impianto dei codici, in particolare il rito inquisitorio.
Io sono stato attivo nel promuovere il cambiamento del rito da inquisitorio stretto a quasi accusatorio, com’è l’attuale processo.
E’ stata una illusione culturale e sociale perché si credeva di dare al pubblico ministero una funzione rapportata solo all’acquisizione delle indagini più urgenti e si pensava di fare in modo che tutte le prove venissero raccolte nel dibattimento.
Sono passati 25 anni e si è capito che la raccolta di prove nel dibattimento è in gran parte fallita a causa di un problema strutturale che riguarda molto anche il processo civile.
Le strutture a nostra disposizione non sono idonee a produrre i due elementi fondamentali che possono rendere credibile la giustizia: un processo celere e che dia al cittadino protagonista del processo un risultato che renda la decisione che assume il giudice certa e ragionevole.
Ma la mancanza di strutture adeguate e una sostanziale forma di arretratezza culturale ci allontana molto anche dai fondamenti illuministici del diritto. Quando leggo i discorsi sulla prova penale di Mario Pagano, giurista luminoso che fu assassinato dalla reazione Sanfedista a Napoli nel 1779, trovo molta più attualità nella ricerca e nelle proposizioni di questo grande sotto il profilo delle garanzie di quanto non se ne trovano in volumi e volumi di scienza giuridica contemporanea.
Ad esempio sui collaboratori di giustizia che mi ostino a chiamare “pentiti”: ad oggi non c’è una legislazione idonea a contenere l’abuso del pentitismo “a rate”, a contenere questa specie di “colloqui accanto al caminetto”, come li definiva Giovanni Falcone, in cui il pentito gioca il suo ruolo di destrezza che trae in inganno l’inquirente.
Qui entra in gioco non solo un discorso di carenze strutturali intese come materiali, di mezzi, ma anche un discorso di crisi della capacità legislativa.
Mi sono occupato per tanti anni di giustizia, ma il momento che mi sono sentito mortificato e impotente è stato quando si sono annunciate continuamente delle riforme da parte del Parlamento e invece si sono espresse solamente delle leggi dirette a risolvere casi singoli, problemi importanti solo perché legati alle necessità di una personalità.
Ora come si può pensare di riprendere un discorso serio di legislazione?
Garantismo e giustizialismo sono due parole abusate. Il garantismo non è una corrente di pensiero perché è chiaro che la prima garanzia è quella di una giurisdizione che funzioni, e i codici sono pieni di garanzie.
Io non penso che ci siano persone accanite a volere ad ogni costo determinare una giustizia in una sola direzione.
Se ci sono dei varchi in cui si infilano queste tendenze dipende da attrezzature culturali e normative.
Tra politica e magistratura c’è una rissa sui luoghi comuni che non ha fatto altro che bloccare tutte le possibili riforme della giustizia.
Non credo invece che ci sia un accanimento della magistratura nei confronti della politica, ci potrebbero essere degli atteggiamenti di protagonismo di titolari di inchieste delicate, ma c’è da dire che senza questi momenti di attenzione nei confronti delle caste, noi cittadini non sapremmo nemmeno quanto è diffusa la corruzione e penseremmo che il male dell’Italia sono solo la mafia, camorra e ‘ndrangheta, spostando l’attenzione alla corruzione amministrativa, burocratica e imprenditoriale.
Noi abbiamo diritto di sapere.
La segretezza delle indagini deve cedere il passo di fronte all’accertamento. Bisogna reprimere gli abusi.
Il problema è che spesso non si capisce chi li deve reprimere.
I progetti di legge sono nel vago.