SALERNO – Lo avevo in parte già scritto, adesso lo confermo in pieno: il caso giudiziario apertosi in seguito al duplice omicidio di Ogliara del 5 maggio 2015, dove vennero uccisi Antonio Procida e Angelo Rinaldi, si afferma sempre più come un caso scuola per una serie di motivi. Primo fra tutti la guerra intestina tra due clan rivali, una guerra che connota da sempre l’eliminazione reciproca (quasi come in una cencelliana spartizione democratica dei morti ammazzati !!) dei componenti di clan opposti. In secondo luogo c’è l’apparente “futile motivo” della lotta per l’affermazione della rispettiva autonomia nell’attacchinaggio dei manifesti elettorali che offre la possibilità agli inquirenti di entrare nei meandri dei rapporti tra politica e delinquenza comune o organizzata. Lo sanno tutti, difatti, che a Salerno per attaccare i manifesti non occorrono soltanto un secchio di colla ed una scopa, senza il preventivo consenso di chi quel lavoro intende praticarlo in maniera esclusiva e camorristica. Certo si potrebbe andare presso gli uffici comunali, depositare i manifesti, pagare e andare via; ma quei pochi manifesti verranno subito coperti proprio dagli adepti dei clan specializzati anche per questa bisogna. Visto che la politica esige una marea di manifesti bisogna accorciare i tempi e, pagando la giusta cifra, inondare la città di propaganda elettorale. Che poi la Procura si sia mossa per verificare i rapporti tra l’avvocato Lello Ciccone (candidato alla Regione per Forza Italia) e non per altri candidati è assolutamente un fatto secondario, tanto è vero che il politico interessato è stato soltanto sentito per via di alcune intercettazioni e poi il clamore è finito. Sarebbe stato più opportuno indagare a 360° sul rapporto politici-manifesti-criminalità, ma ci avrebbe portato troppo lontano anche perché se ci si mette ad indagare per ogni foglia che si muove non concludiamo più nulla (questa la versione degli investigatori), nella fattispecie però ci sono due morti ammazzati e sicuramente la connessione tra politica e malavita andava indagata meglio ed a più ampio respiro. Nel caso in esame, inoltre, c’è la vicenda inquietante dei funerali dei due malcapitati Procida e Rinaldi con le due bare scortate da tantissimi giovani in motociclette strombazzanti e senza casco in testa quasi a mò di sfida contro l’autorità costituita; e poi la gaffe del parroco di Ogliara don Giuseppe Greco che fece suonare a distesa le campane della chiesa e nell’omelia arrivò a dire: “Un sacrificio, quello di Antonio e di Angelo, fatto per l’intera comunità, per dare a tutti la speranza di un futuro diverso e migliore: quello che loro volevano per i loro figli”. Un concetto nobilissimo che poteva essere calato a pennello per le vittime della mafia, non certamente per i due verso i quali era sufficiente soltanto una commiserevole partecipazione umana. Sul caso sarebbero state aperte due inchieste, della Curia e della Questura, delle quali si sono perse le tracce. C’è poi la vicenda delle intercettazioni telefoniche che avevano coinvolto l’avv. Ciccone e il dipendente comunale Marigliano; e qui c’è stato un eccellente provvedimento del gip Emiliana Ascoli secondo la quale il politico e il dipendente comunale non potevano essere sottoposti ad intercettazioni, strumento da adottare soltanto per trovare prove e non per andare alla disperata ricerca di indizi. Il problema, poi, nella sua accezione giuridica, ha avuto anche un altro sprofondamento di stile; difatti questo pronunciamento del gip è stato tenuto segreto anche quando il caso fu discusso dinanzi al tribunale del riesame, sede in cui vennero fuori soltanto le intercettazioni alla moglie del Procida e ad altre persone ad essa collegate. Ma al di là del caso specifico e dei suoi tratti oscuri, il pronunciamento del gip Ascoli apre nuovi spiragli di dibattito giuridico, come dicevo prima, nell’ampio scenario delle intercettazioni regolate da una miriade di provvedimenti a volte anche incomprensibili; e questo la giurisprudenza in senso lato saprà in un prossimo futuro illuminarci di più e meglio. Ma non finisce quì, in sede di udienza preliminare è emerso il problema delle immagini registrate da alcune telecamere posizionate lungo il tragitto che avrebbero percorso i tre imputati (Matteo Vaccaro con un’auto e Guido Vaccaro e Roberto Esposito con un motorino), tuttora detenuti in carcere, per recarsi sul luogo dell’appuntamento e del delitto e che in otto minuti (tempo tra una telecamera e l’altra) si sarebbero scambiati il posto sul motorino e sulla macchina che viaggiava in senso opposto, come a confondere gli inquirenti sulla reale posizione dei tre. Infine, come nei migliori film gialli, ecco che la difesa di Roberto Esposito che contesta la originalità delle immagini, e la loro ricostruzione con montaggio, ritenendo che non ritraggono in maniera sufficientemente riconoscibile il loro assistito. Tutti elementi che troviamo nei grandi casi delittuosi di cui la cronaca nazionale, attraverso i network, si interessa quotidianamente portando nell’immaginario collettivo, con il nuovo modo di fare televisione, la cronaca nera come fosse un leggero varietà da seguire con un accanimento che va anche oltre l’attenzione che milioni di persone pongono per seguire le telenovele o le varie serie televisive. Di tutto questo, comunque, se ne discuterà in aula il prossimo 26 settembre 2016; difatti il gup Annamaria Zambrano accogliendo le richieste del pm Vincenzo Montemurro ha rinviato i tre detenuti a giudizio.
direttore: Aldo Bianchini