Aldo Bianchini
TEGGIANO – C’è chi si dispera, chi non riesce a darsi pace, chi si isola in uno sconforto senza fine; e c’è chi invece, tirando il freno e i freni, riesce a dire semplicemente “Perché non a me”. Con queste ultime parole potrei sintetizzare la storia travolgente, coinvolgente e commovente di una ragazza di diciotto anni che nell’arco di pochi minuti si vede strappata alla quotidianità più serena ed all’affetto dei suoi cari per ritrovarsi in un reparto di oncologia pediatrica, accompagnata nel silenzio assordante dal papà, dalla mamma e dalla sorella più piccola. Qualche giorno prima, se non qualche ora o qualche minuto prima, qualcuno le ha diagnosticato un male sconosciuto, insidioso, pericoloso e innominabile; e prima di varcare la soglia della sua stanzetta ospedaliera ha già visto tanti bambini, affetti anche loro da quella patologia da tenere quasi nascosta, che la guardano e mentre si aggrappano a lei riescono comunque ad infonderle la serenità e la grinta giusta per lottare, per resistere, per aggrapparsi alla vita. Nel momento di varcare quella soglia tutti dicono “Perché proprio a me”, lei che ha avuto le potenti iniezioni di vita da quei bambini si rilassa e si convince che, in definitiva, quella è la vita, è il gioco della vita, e pronuncia con se stessa e dentro se stessa la fatidica frase “Perché non a me”. E lo fa con estrema semplicità, quasi disarmante per chi le sta vicino, ha guardato quei bambini con occhi diversi rispetto ai suoi familiari; da qui la convinzione e la forza di andare avanti e vincere. Il suo nome è Barbara, il suo cognome D’Alvano, giovanissima, fortissima, resistentissima oltre ogni più rosea aspettativa; è lei che rompe il silenzio gelido che era sceso sull’intera sua famiglia e rassicura tutti con un perentorio “Tranquilli, ce la farò !!”. Cancro e tumore, parole che per decenni sono state pronunciate soltanto con un filo di voce se non era possibile trasformarle in “quel male brutto”, “quella malattia incurabile” o in una “semplice alzata di spalle” per trasmettere, anche senza parole, tutto lo sconforto possibile. Barbara dice e sostiene che occorre l’informazione e la comunicazione per superare certi tabù che ancora oggi crescono e proliferano intorno a quello che viene, forse stoltamente, definito “il male del secolo”; è giusto e sacrosanto quello che dice Barbara, la conoscenza rende l’uomo libero e permette di capire, di andare oltre, per evitare paure e incomprensioni. Il problema, diciamocelo con chiarezza, ha le classiche due facce della stessa medaglia; da un lato il malato, dall’altro i familiari. I sentimenti sono spesso identici ma sempre e comunque contrapposti; il ruolo dell’ammalato è basilare ma quello dei familiari è assolutamente decisivo. La paura porta con se il gelo assoluto e se alla base non c’è una predisposizione ed una preparazione anche culturale non c’è nulla da fare e le strade subito prendono direzioni diverse, il paziente da un lato, i familiari dall’altro, nel mezzo il silenzio e la solitudine. E’ vero che in fondo ogni essere umano nei momenti decisivi è sempre solo, ma se è sorretto da un ambiente amico è tutto più semplice o quanto meno più accettabile. Ecco l’informazione globale, afferrata da una giovane ragazza, può essere l’elemento risolutore e condizionante anche per l’effetto psicologico e per gli esiti curativi delle terapie. Non oso immaginare la scena di un papà, di una mamma e di una sorella al cospetto di una notizia così devastante, per giunta arrivata quando meno se l’aspettavano. Il mio ricordo personale va a tantissimi anni fa, alla fine degli anni ’50; mio padre e mio fratello più grande giunsero da Napoli (Clinica Pascale) con l’esito degli esami praticati a causa di una lesione sul labbro che mio padre portava da un paio di mesi. Era la fine di novembre e in casa a Salerno il gelo calò all’improvviso; nessuno parlava, mio padre fece scivolare sul comò della sua stanza da letto il referto ospedaliero e senza una parola uscì in strada a Torrione. Nel silenzio fragoroso mi avvicinai lentamente a quel pezzo di carta che non toccai e sul quale lessi “Epitelioma labbrale”; ero ancora ragazzo, non sapevo di cosa si trattasse; lentamente andai in camera mia e velocemente consultai il vocabolario, lessi e quel gelo ambientale si trasformò in un gelo personale. Capii bruscamente che da quel momento sarebbe radicalmente cambiata la mia vita, la vita della mia famiglia e che sarebbe finita quella di mio padre. Dopo qualche giorno nascosi il vocabolario, non l’ho mai fatto toccare a nessuno, lo conservo ancora oggi molto gelosamente e l’ho riaperto pochissime volte e sempre per leggere quelle poche righe. Non oso, dicevo, immaginare cosa possa essere accaduto in quella giornata da freddo polare in casa D’Alvano e con il papà di Barbara verosimilmente attaccato al computer di nascosto per leggere, per vedere e per capire, mentre le lacrime represse a stento gli impedivano anche una corretta visione dello schermo. Con un papà “costretto” ad andare in tribunale come ogni mattina, a far finta di niente, a parlare senza sentirsi perche la sua mente è lontanissima mille miglia da quei problemi che d’improvviso gli appaiono ridicoli: memorie difensive, udienze, precetti, sentenze, magistrati, cancellieri, tutto spazzato via in un nano secondo. E che pensare della “mamma” (Paola Cimino), forte, decisa, volitiva, superbamente impegnata nel suo ruolo di raccordo della famiglia, ma con il cuore spezzato e l’animo ridotto in mille briciole; sempre dietro le quinte, non le piace il proscenio ma è lei il cuore pulsante dell’intera famiglia. E che dire, infine, della sorella minore (Maria Letizia) disperata, distrutta dal dolore e dalla paura ma pronta, efficace ed efficiente nel sostenere tout-court la sorella maggiore fin dentro il gelo di quella nuda stanzetta di ospedale, addirittura visceralmente attaccata a Barbara. Immagino la scena dell’incontro nel corridoio di casa tra le due sorelle, con Barbara che l’abbraccia e laconicamente le sussurra “Ho un cancro”. Non ci sono commenti possibili, tutto sarebbe superfluo, è preferibile il silenzio. E qui ritornano in maniera impressionante le parole di Woody Allen “Le parole più belle che uno possa desiderare di sentire non sono più ti amo ma non ti preoccupare è benigno” che la coraggiosa Barbara ha fatto subito sue cercando di afferrarle e di metterle insieme (amore e cure) con l’affetto incrollabile della famiglia e le terapie (anche psicologiche) dei medici, tra i quali il prof. Massimo Federico (docente ordinario di oncologia medica 2° dipartimento di oncologia ed ematologia dell’università di Modena e Reggio Emilia) che fin da subito ha sposato incondizionatamente il “caso Barbara” anche al fine di esplorare fino in fondo le capacità che ogni individuo, ognuno di noi, ha nel suo dna naturale per poter saltare l’asticella e superare l’ostacolo. E “il professore” è venuto da lontano fino a Teggiano per parlare di Barbara ma anche per spiegare le sue emozioni di scienziato al cospetto di una ragazzina capace di dare battaglia per rimanere ben attaccata alla vita che sogna da sempre e che vuole realizzare, costi quel che costi. Non ha dimostrato soltanto sensibilità e calore umano, il prof. Federico, ma percorrendo a ritroso il famigerato “viaggio della speranza” ha fatto capire a tutti quanta sia importante la comunicazione e la conoscenza del male che non si voleva ma che ineluttabilmente si ha. Bisogna lavorare ancora molto sulla cosiddetta “cultura dell’accoglienza” (punto di forza del prof. Federico che messaggia continuamente con i suoi pazienti), bisogna lavorare fino a farla diventare parte integrante anche della professione di medico in modo da rispondere pienamente anche al giuramento di Ippocrate che già 2500 anni fa parlava di accoglienza e di rapporto psicologico con l’ammalato. Ma il “caso Barbara” non si ferma alla prima parte, quella dolorosa del suo passato calvario, ma si apre prepotentemente al mondo della solidarietà che la ragazza ha fatto suo proprio mentre la sua sofferenza era ai massimi livelli; è riuscita anche a trovare la forza e la serenità di aiutare una bambina (Fabiola Pulito) per mandarla insieme ai genitori presso il santuario della Madonna di Medjugorie nell’ottica di un ultimo e disperato tentativo di salvezza; ora quella bambina non c’è più ma ha fatto in tempo ad inviare a Barbara un messaggio video incredibilmente forte ed intenso. Al di là di quel video Barbara conserva un messaggio di sua sorella (siamo l’infinito !!) e l’ha trasformato in un piccolo e significativo tatuaggio che porta sempre con se sull’avambraccio sinistro per tenerlo d’occhio ogni minuto della sua vita e per percorrere (unitamente alla sua amica Arianna D’Elia e all’Associazione Angela Serra di Salerno) un “percorso difficile e insidioso” ma utile ad infondere fiducia e speranza negli altri, un percorso terapeutico per la stessa Barbara D’Alvano. Da grande Barbara farà l’avvocato, seguirà le orme di “papà Giuseppe”, sarà sicuramente protagonista del foro, ma non dimenticherà mai la sua esperienza di vita vissuta e rimarrà sempre impegnata per diffondere conoscenza e solidarietà. Molto commovente il momento della lettura da parte di Maria Letizia di un brano del suo diario personale scritto in uno dei momenti più bui dell’esperienza di Barbara; ho fatto appena in tempo a vedere la mamma Paola che si allontanava in gran fretta dalla sala gremita di gente, i suoi occhi erano lucidi ed il suo volto stava per essere rigato dalle lacrime. Il resto, cioè la cronaca dell’importante convegno “Tumore e timori” potrete leggerla su tanti altri giornali; per non essere ripetitivo dico soltanto che è stato un grosso successo di pubblico che ha spesso interrotto gli oratori con lunghi applausi: il sindaco di Teggiano, Rocco Cimino, il vescovo mons. Antonio De Luca, la dott.ssa Annalisa Giordano, il dr. Arturo Iannelli e lo stesso avv. Giuseppe D’Alvano. Su tutto l’ottima organizzazione da parte dell’Associazione Angela Serra per la ricerca sul cancro -sezione di Salerno Luana Basile-.
direttore: Aldo Bianchini