SALERNO – Fischi, urla, epiteti senza sconti, offese, intimidazioni, impegni disonorati, leggerezza, arroganza, strumentalizzazioni mediatiche: questi gli ingredienti che hanno reso terribilmente vivace ed eloquente quella che doveva essere una semplice manifestazione della fede. Sì, perché – non bisogna dimenticarlo – una processione è a tutti gli effetti un rito liturgico, un evento sacramentale, una manifestazione pubblica della fede, la narrazione di una vita che celebra il legame creaturale con Dio e l’adesione (personale e comunitaria) al credo cristiano. E, invece, sono venute a mancare proprio le coordinate religiose. Di fronte allo spettacolo indecoroso offerto da taluni partecipanti durante la solenne processione di San Matteo c’è da porsi una domanda chiara e inequivocabile: cosa si segue, un santo o una statua? Se si segue il santo, ci si lascia contagiare dalla sua vita esemplare radicata nel vangelo; se si segue una statua, si corre il rischio di collocarsi inevitabilmente in una prospettiva pagana che nulla ha a che vedere con la fede cristiana. Solo a partire da questa confusione si possono generare atteggiamenti e comportamenti distonici con lo spirito cristiano e distanti anni luce da un autentico senso religioso.
Non si tratta, all’indomani di vicende a dir poco bizzarre, di assurgere a giudici degli altri ma, sempre nella carità e nella amorevole correzione fraterna, di fare i conti con la verità. Anche in questo caso, va sempre operata una distinzione tra errore ed errante. Verso chi sbaglia, spesso in buona fede o infervorato dalle circostanze, bisogna saper esercitare l’amore fraterno, sempre riconoscendogli la dignità di figlio di Dio. Ma, proprio per questo, rispetto a certe cadute di tono, talvolta ai limiti della legalità, va espresso senza esitazione il proprio disappunto, la propria amarezza e, con coraggio profetico, la propria contrarietà. Non ci si può nascondere dietro un silenzio complice. Una fede pienamente vissuta, infatti, tende sempre a trovare motivi per riconciliarsi con le persone ma difficilmente può armonizzarsi, confondersi o scendere a compromessi con prassi che derivano da forme di sincretismo magico-religioso e di ritualismo bigotto prive di spessore ecclesiale e spirituale. Tolto il contenuto a un recipiente, rimane un contenitore traboccante di sola vacuità.
La comunità credente deve seriamente interrogarsi su fenomeni del genere, per anni superficialmente avallati, e rigenerarsi ad una fede sempre più evangelicamente fondata, aiutando se stessa a ritrovare una pienezza di ecclesialità e offrendo ilproprio contributo affinché la comunità civile possa riscoprire nel suo insieme quei sacrosanti valori etici che fondano la convivenza sociale.
Mi chiedo, allora, se in questa circostanza ci sia stata solo una mancata manifestazione della fede o forse anche e specialmente un difetto di senso civico. Mi sembra quanto mai opportuno considerare, a tal proposito, le parole di Papa Francesco, pronunciate durante la sua visita in Albania, ma quanto mai illuminanti per una situazione critica come la nostra, che dobbiamo tuttavia saper trasformare in una grande opportunità di crescita umana e spirituale. Il Pontefice afferma con decisione che nessuno deve «farsi scudo di Dio mentre progetta e compie atti di violenza e sopraffazione». Parafrasandolo, possiamo dire che nessuno deve farsi scudo di statue sacre per osannare la propria prepotenza. E’ violenza, sebbene psicologica, fischiare come allo stadio, minacciare, non rispettare le indicazioni di chi ha competenza in materia liturgica. Le nostre statue possono rifulgere di argento, avere addobbi preziosi, ma non sono nulla senza la luce di quello Spirito della Vita che alberga nella coscienza dell’uomo e anima la sua fede. Se dietro il simulacro non c’è più l’immagine vera del Dio trinitario, quello adorato da San Matteo, tutto si riduce drammaticamente a pura apparenza,a desolante vanità, a sottile potere autoreferenziale e autocelebrativo. E non serve invocare una presunta sovranità del popolo. Anche Israele, ricordo a tutti, abdicò al suo Signore per adorare un vitello d’oro. L’idolatria è profondamente contraria alla fede e non si può far finta di niente quando vengono tradite le istanze di fondo che dovrebbero muovere la sua testimonianza pubblica, come nel caso di una processione.
Parlo di una fede costruttivamente dialogante, che non può però prescindere da una precisa identità. E questa identità, “cristiana”, deve dettare i criteri cui ispirarsi nel celebrare i sacramenti. Un’identità da anni profanata, vilipesa, non rispettata da una impropria commistione di sacro e profano, difesa in nome di una non ben identificata tradizione. Ma quale tradizione? E quale popolo? Quello credente o quello miscredente che vuole assoggettare alle proprie “credenze” e prassi i valori alti del Vangelo, che invoca una tradizione ordinariamente ignorata e disertata.
Perché invece di prestare morbosa attenzione agli schiamazzi dei facinorosi, non si ascoltano i sentimenti di tanta gente che sta alla larga dai clamori di qualsiasi tipo? Perché non si guardano i volti di tanti fedeli e di tanti ammalati che hanno versato lacrime per questo scempio da mercanti nel tempio. C’è solo un popolo legittimato a pronunciarsi in materia di processioni: è quello che sente di appartenere vitalmente e responsabilmente alla Chiesa di Cristo Gesù, che vive ogni giorno nella preghiera e nella misericordia, che rispetta i suoi Pastori come ministri di Dio, che semmai esprime il dissenso nei modi civili che si confanno ad uno stile realmente evangelico.
A noi laici credenti tocca il compito, il giorno dopo, di ricominciare ad essere comunità educante in ogni ambito della vita, di rifondare le ragioni del nostro credere, di rafforzare l’autenticità dell’istanza religiosa accanto alla maturità del senso civico.
All’indomani di quanto è accaduto, non si tratta di schierarsi da una parte contro l’altra, ma di guardare in modo rinnovato alla radice del credere, all’istanza di fondo dei gesti che rendiamo visibili a gloria di Dio. Direi allora che esprimere davvero solidarietà al Vescovo di una Chiesa ferita nella sua sensibilità da questi eccessi stravaganti, significa oggi accogliere il suo invito alla misericordia e alla costruzione di una comunità unita, ristabilire sapientemente la concordia nel rispetto reciproco, nella verità, nell’identità e nella convivialità delle differenze, guardando insieme al bene comune come un valore irrinunciabile che tutti siamo chiamati a custodire.