Che a letto preferisse la letteratura è cosa nota. Eppure Anton Cechov aveva sposato la medicina: “La Medicina è la mia legittima sposa, mentre la letteratura è la mia amante: quando mi stanco di una, passo la notte con l’altra.”, scriveva, infatti, il grande scrittore e medico russo del secondo ‘900.
Una inconciliabilità solo apparente, quindi, tra arte letteraria e scienza medica. Perché trattasi di due amori perfettamente compatibili, di cui è storicamente ricca la tradizione culturale e letteraria del mondo intero.
C.P. Snow lo sancì autorevolmente nel 1959 con la celebre conferenza di Cambridge su Le due culture.
Quel binomio sapiente vive, dunque, di una costante attualità, purché l’etica che lo contraddistingue non si evolva mai da quel verghiano “mal sottile”, attribuito alla tubercolosi come male del secolo, in mali diversi e peggiori: i mali della speculazione, dello sfruttamento, dell’interesse ai danni di chi è costretto ad affidare ad altri il proprio corpo, le proprie sofferenze, le proprie afflizioni.
La medicina è un mondo che, prima o poi, chiama tutti a rapporto. Questione di tempo perché Ippocrate si prenda cura di noi.
E’ allora che scatta il vincolo della solidarietà per coloro che quel mondo rappresentano, tutelano, difendono. Quando alla fragilità, alla paura, alla solitudine del singolo la controparte è tenuta a rispondere con la solidarietà che nasce non solo dal ruolo, ma da una auspicata condivisione morale e dal conseguente sostegno al male altrui. Una condivisione che si sposa con parole di routine di conforto e di ovvio incoraggiamento. Ma cui deve associarsi l’impegno reale profuso nella ricerca e nella scienza: attraverso lo studio, l’aggiornamento, la passione di conoscere e di perfezionarsi. Senza restare isolati nel mondo dorato delle certezze economiche e professionali conseguite; senza vivere di rendite monotone e moralmente improduttive; senza spolverare quotidianamente le aureole di rito lungo percorsi inadatti al sacrificio e alla rinuncia. In poche parole, senza quei letarghi speculativi utili ad ingrossare le tasche del singolo a discapito della propria formazione, dell’aggiornamento, dello studio.
Certo, nessuno pretenderebbe il Cechov dello sperduto villaggio di Babkino, ove curare “alcune centinaia di pazienti per tutta l’estate” portò il famoso medico-scrittore ad “ un sol rublo di guadagno”.
I tempi diventano moderni e la modernità impone i propri travagli e le proprie condizioni di bisogno a tutti per i dovuti conseguenti soddisfacimenti.
Il guadagno, legittimo beneficio per un lavoro fatto di sacrifici e responsabilità, merita, perciò, rispetto e riconoscimento.
Le difficoltà storiche del Sud e quelle loro conseguenti rendono oggettivamente più difficili le risalite, gli aggiornamenti, i perfezionamenti nel campo della ricerca in genere, non esclusa di quella medica.
Assumono particolare risalto, quindi, le novità, i successi scientifici individuali e di équipe allorquando essi riguardano componenti umane e strutturali del nostro Mezzogiorno.
Esserne testimoni e riconoscerlo pubblicamente diventa, allora, un imperativo, un atto dovuto in una realtà – quella sanitaria – che vive di malanni oggettivi in un contesto nazionale preoccupante. Cosa di cui, purtroppo, le cronache ci informano quotidianamente. Magari là dove non lo immagineresti neppure.
Per fortuna l’eccezione sembra essere dietro l’angolo. Capiti, infatti, per caso all’Ospedale “San Giovanni Bosco” di Napoli per accompagnare un amico e la sede di per sé ti intristisce solo a vederla.
Ti conforta il fatto che non sia l’unico caso in verità. Tutto ciò che è pubblico nel nostro Paese, nell’edilizia ad esempio, genera spavento: edifici vecchi dalle pareti malandate e tristi, strutture interne ed esterne che andrebbero rifatte e potenziate nell’interesse degli operatori e della collettività.
Dal piano-terra scendi, poi, giù con l’ascensore e ti ritrovi negli ambienti del Day Surgery di quella pubblica struttura.
Il primo impatto che non ti aspetteresti te lo dà una addetta alla struttura medica dal piglio deciso e professionale. Fa l’appello con scrupoloso rigore e voce energica, quasi teutonica, che non ammette repliche. Prima nota positiva, che fa a pugni con la cultura dell’improvvisazione e del mancato ‘queuing up’ di cui accusano notoriamente i meridionali e che qui, invece, non sembrano esistere.
Il resto viene da sé. Il silenzio è dominante, la professionalità di medici e infermieri pure. L’équipe chirurgica altrettanto. Le voci corrono in fretta. Le migliori, quelle dei diretti interessati. I pazienti. In fila, pochi al giorno, per quell’intervento considerato di routine, apparentemente non complesso e che pure nei tempi andati ha diffuso notevoli sofferenze.
Ma qui, a Napoli, c’è la novità. Un giovane chirurgo ha saputo farsi strada grazie all’intuito, alla professionalità, all’aggiornamento, alla voglia di sapere e scoprire, raggiungendo i vertici nazionali nel campo della chirurgia dell’ernia e delle nuove tecniche operatorie. Parliamo di Angelo Sorge e della sua squadra simpaticamente affiatata: dall’’autoritario’ Caposala (Raffaele Marchese) all’anestesista ‘fratellone’ (Francesco Gaetano), dall’aiuto ‘bonaccione’ (Gianluca Muto) all’’altro lato della luna’, ossia il chirurgo plastico (Vinni Guerra). E, infine, il chirurgo-‘supertifoso’ di Benitez e soci (Lucio Paesano), di quella stessa struttura ospedaliera.
Di recente l’italiano Sorge ha conseguito un ambito riconoscimento a livello europeo. Sarà il ‘project leader’ di una nuova generazione di protesi auto fissanti e dirigerà una squadra di 10 esperti di livello internazionale per la standardizzazione della tecnica e la sua divulgazione. Saranno progettate, inoltre, nuove protesi che un gruppo di ingegneri francesi coordinati da Sorge dovranno, poi, realizzare per conto di una importante multinazionale.
Come si vede, la scuola francese ai massimi livelli nel settore gli ha fatto da tempo da battistrada e lui percorre già da anni la via nuova, con risultati confortanti e di grande benessere per i pazienti. Pazienti comuni, come deve essere nella gestione della cosa pubblica; trattati indistintamente con solidale umanità e competenza, beneficiari di una procedura tecnico-chirurgica che ha recentemente consentito al giovane chirurgo napoletano di assurgere ai vertici nazionali ed europei. Il tutto nel rispetto delle regole, di quell’assistenza chirurgica pubblica che comincia in ospedale e finisce in ospedale: in tutte le sue fasi propedeutiche previste dal protocollo del pre e post-operatorio.
Sorge è un tipo di poche parole. Così sembra, almeno. Per come opera e per come si relaziona con il mondo del quotidiano. Che è, poi, quello dei suoi diretti interlocutori: i pazienti, i cosiddetti ‘malati’. Per quel rapporto fiduciario che avvicina gli uni all’altro, l’altro agli uni.
Non bisogna essere necessariamente scrittori nell’esercizio dell’arte medica, non tutti sono e saranno percettori di entrambi gli stimoli medico-letterario così come perfettamente coniugati e/o interpretati dai grandi della storia: dai Cronin, dai Cechov, dai Conan Doyle, dai Céline, dai Mann o dai Levi (Carlo), e da tantissimi altri nostri contemporanei e connazionali (penso ai Bedeschi, Bonaviri, Tacconi, Vitali).
E’ sufficiente che i medici non letterati vivano e condividano nello spirito quelle medesima sensibilità, per quel quotidiano sentimento di amore e di solidarietà da donare alla controparte debole e sofferente.
La medicina svolge un ruolo altissimo. Interpretarlo nella maniera giusta rilancia quel suo spirito missionario consacrato ai valori della vita prima che a quelli dell’interesse e della materia.
Un ospedale di periferia urbana napoletana lancia una sfida silenziosa e proficua all’intero territorio dentro cui vive e opera, in un’area sociale particolarmente difficile.
Farlo con lo spirito, l’abnegazione e il disinteresse dell’équipe chirurgica sorgiana è un merito in più. Per quei confini dell’etica dentro cui la intera collettività deve essere certa di potersi muovere e confrontare nella quotidianità, traendo per questo i benefici auspicati e dovuti.