Aldo Bianchini
SALERNO – Armin Zoeggeler, una leggenda sì, che ha scritto una pagina indelebile, qui tra i saliscendi del budello ghiacciato. Armin sempre in alto, oltre la soglia della storia. Ha infilato sei olimpiadi invernali di seguito andando sempre a medaglia: 2 di oro (Salt Lake City e Torino), 1 d’argento (Nagano) e 3 di bronzo (Lillehammer, Vancouver e Sochi). Terzo nel 94, secondo nel 98, primo nel 2002 e 2006, terzo nel 2010 e 2014. Una parabola naturale, un personaggio leggendario che compare, cresce e poi si affievolisce, come una stella nel firmamento dello sport. Ma non sono soltanto queste le sue medaglie in venti anni di vita sportiva tra i saliscendi di quel pericolosissimo budello di ghiaccio; ha vinto 16 medaglie ai campionati mondiali (di cui 6 di oro), 18 medaglie agli europei, 10 coppe del mondo, 120 podi in tutta la carriera. Un mostro non c’è che dire. Dopo ogni successo torna nel suo paesino tra i monti (Merano), lì è soltanto Armin e non una star; proprio questo gli ha dato la forza di rigenerarsi ogni volta. Oggi, dopo, la sesta olimpiade invernale consecutiva tutti ad inneggiarlo, quasi a mitizzarlo, per rinchiuderlo subito nell’oblio della dimenticanza sotto l’incalzare degli altri sport cosiddetti maggiori. Al momento soltanto un altro atleta italiano potrebbe eguagliare il suo record olimpico: Valentina Vezzali, che ha già vinto medaglie in cinque olimpiadi estive di fila, le manca Rio per raggiungere l’altro azzurro da leggenda. Speriamo. Ma se tutti, oggi, non fanno altro che parlare di Armin, io pur rimanendo attonito di fronte a tanta sovranità sportiva non posso fare a meno di guardare all’altra faccia della medaglia. Per me Armin Zoeggeler è esattamente lo specchio di quello che è il disastro incontrollabile dello sport italiano che vive, o meglio vivacchia, soltanto sulle imprese dei grandi campioni che nascono per caso, che per caso arrivano alla disciplina preferita, che sempre per caso scrivono la storia dello sport. In questo Paese, bello e maledetto al tempo stesso, non c’è il benché minimo “progetto programmatico” che possa investire sui tantissimi giovani che, comunque, si avvicinano alle più disparate discipline sportive. Qui da noi bisogna far leva sui cosiddetti “vecchietti” come regole di successo; ed è sempre così da tempo immemorabile, fin dagli albori della civiltà olimpica; nel tennis come nella pallacanestro, nello sci come nella pallanuoto, nella scherma come nell’atletica leggera. In altri Paesi i vecchietti sono già da tempo allenatori dei giovani (tranne rarissime eccezioni come Albert Demchenko, il russo che a 42 anni ha vinto l’argento davanti a Zoeggeler), i giovani vivono stagioni esaltanti ma brevissime, come è giusto che sia nello sport in genere. Noi, invece, abbiamo bisogno di un pezzo di marcantonio alto 1 metro e 81 centimetri che pesa 85 chili, che è felice con la sua Monika e con i suoi due figli Nina e Thomas e che vive lassù tra le montagne innevate, lontanissimo dai veri problemi che affliggono lo sport italiano. Una parabola impressionante, quella di Zoeggeler, che va dal bronzo di Lillehammer al bronzo di Sochi. Vent’anni volati via come un soffio, vent’anni che difficilmente serviranno da lezione a tutti i soloni dello sport italiano che parlano, parlano, parlano … quasi sempre a vuoto ed a vanvera. La leggenda di Zoeggeler mi ricorda tanto quella dell’astro australiano Herbert Elliott che alle Olimpiadi di Roma nel 1960 vinse alla grande l’oro nei 1500 piani di un’atletica leggera di altri tempi. Anche Herbert come Armin arrivava, vinceva e scompariva nel suo paesello immerso nel deserto australiano, fu una leggenda senza mai essere una star. Ma anche l’Australia, contrariamente all’Italia, ha una sua precisa programmazione nata proprio sulla scorta degli incredibili successi di Elliot; una programmazione che ha interessato tutte le discipline sportive.