“Che fare?” è probabilmente la domanda che sta rovinando il sonno di Alessandro Profumo, amministratore Delegato del Monte dei Paschi di Siena; domanda alla quale lo stesso Profumo dovrà dare risposta in sede di Consiglio di Amministrazione, subito dopo la Befana. Ma cosa è successo all’assemblea di dicembre? Cosa vuol dire questo evento per noi profani di queste materie e come siamo arrivati a questo punto? La banca Monte dei Paschi di Siena (la terza in Italia) ha un grosso debito con lo Stato che è servito per superare la crisi societaria dei mesi passati; in realtà essa non fallì proprio grazie a questo prestito (i cosiddetti “Monti bond”). Questo debito deve essere restituito pena la trasformazione del credito avuto in azioni della banca stessa; vista la consistenza della somma (quattro miliardi di euro), la sua trasformazione in azioni consisterebbe in una nazionalizzazione di fatto della banca stessa. L’Amministratore delegato ha quindi presentato un piano industriale per rimettere in sesto Monte dei Paschi, piano basato su misure “lacrime e sangue” per rimettere i conti in ordine e, soprattutto, su un aumento di capitale da parte dei soci attuali per rimborsare lo Stato. Il problema è sorto su questo punto, in quanto la quota di controllo della banca è detenuta dalla Fondazione Monte dei Paschi di Siena che attualmente non ha la possibilità di investire ancora nella società, ma non vuole perderne il controllo. La Fondazione infatti ha circa 340 milioni di debiti su un patrimonio di circa 500 milioni; a garanzia di questi debiti ci sono proprio le azioni di Monte dei Paschi. La Fondazione, socio controllore, ha fondamentalmente un conflitto di interessi con la società controllata in quanto, per non cedere il suo potere in MPS affrontando l’aumento di capitale , è disposta al rischio nazionalizzazione, a continuare a pagare gli interessi del 9% sui “Monti Bond” e a dover ricreare il consorzio di garanzia, piuttosto che all’eventualità (più comune in un mercato libero) che entrino soci stranieri. Nell’ultima assemblea della banca è stata approvata proprio la proposta di posticipazione dell’aumento di capitale per permettere alla Fondazione di trovare i soldi per coprire i suoi debiti e cercare di non lasciare le redini della banca. La domanda che vi potreste porre ora potrebbe essere: “Ma la quota di controllo non diminuirà comunque con l’entrata dello Stato e con l’eventuale cessione delle quote della Fondazione per ripianare i propri debiti? Si. La considerazione che però evidentemente ha fatto il presidente della Fondazione, Antonella Mansi, è che se riuscisse a vendere le sue quote ad altre Fondazioni bancarie e se anche imbarcasse lo Stato Italiano come socio, riuscirebbe comunque ad avere un contesto più favorevole rispetto all’ipotesi di soci stranieri o almeno guadagnerebbe tempo. Tempo che però sarà perso dalla banca per ristrutturarsi. Inutile aggiungere che in questo modo Monte dei Paschi continuerà ad essere controllata dalla politica, non tanto per la possibile future presenza diretta dello Stato (che potrebbe addirittura rappresentare una soluzione intermedia prima di una totale privatizzazione), ma per la continuazione della subordinazione della società alle Fondazioni. Così Alessandro Profumo, sconfitto nell’assemblea di dicembre (lui avrebbe voluto fare l’aumento di capitale appena possibile), potrebbe pensare alle dimissioni e lasciare a qualcun altro l’arduo compito di ricreare il consorzio di garanzia per le quote inoptate (scade a gennaio), ovvero quell’insieme di banche e società che sarebbero disposte a comprare l’eventuale parte rimanente e non acquistata dell’aumento di capitale. Infine la Fondazione: il destino sembra sia segnato perché sarà comunque costretta ad alienare la gran parte delle azioni della banca a causa dei suoi debiti e del fatto che rischia di essere escussa di tutta la partecipazione da parte delle banche creditrici (clausola che scatta nel caso che le azioni di MPS scendessero sotto soglia 0,128 euro). E’ una storia complessa, non ancora finita e che forse non servirà a far uscire la politica dall’economia.