Palermo capitale italiana dello Street Food

 

Barbara Filippone

PALERMO – La città è risultata essere, secondo un’indagine svolta dalla Virtualtourist e pubblicata dal Forbes, al quinto posto nella classifica sulle migliori città al mondo con un ottimo cibo di strada o come adesso viene denominato “Street Food”, dopo Bangkok, Singapore, Menang e Marrakesh.  Una delle cose da fare assolutamente quando si viene in Sicilia, e in particolare Palermo, è quello di gustare le prelibatezze che dei mestieranti un po’ particolari vendono agli angoli dei diversi punti della città o nei suoi mercati storici. Incontriamo diverse figure: u miavusaru, u stigghiularu, u frittularu, u quarumaru ed infine per ultimo ma non ultimo u panillaru, il mio preferito: così milza, stigghiole, frittola, caldume, panelle e crocché diventano patrimonio culinario palermitano. Si dice infatti che il palermitano verace non può non avere assaggiato almeno una volta nella sua vita uno di questi piatti tipici. Naturalmente la tradizione di questo cibo di strada è qualcosa che si tramanda spesso da padre in figlio, che racchiude in sé non solo una cultura familiare ma soprattutto una cultura fatta di due semplici ingredienti: semplicità e povertà.  Qualche giorno fa, a Palazzo Steri, a Palermo è stata fatta la presentazione di un libro il cui autore Luca Iaccarino, giornalista enogastronomo, ha definito il cibo da strada con queste parole: “non è roba da signorine  e il ristorante è lirica, la trattoria è pop, il cibo di strada è rock” e la vera cucina di strada “è, appunto, servita per strada, economicissima, semiabusiva ma gustosa, unta, rigogliosa, conviviale, compagnona, grassa, etilica, popolare, carnale”. I turisti vengono infatti colpiti oltre che dalla varietà del cibo in sé anche dalla sua genuinità, cibi poveri che con una vendita un po’ folkloristica riescono ad attrarre ogni tipologia di cliente, dal più esigente a quello senza pretese… E di questo si deve dare merito soprattutto all’interesse di tanti scrittori e cultori di questa varietà di cibo che con un salto nel passato hanno ridato voce ad una cultura tradizionale sebbene molto povera; fra questi cultori il più noto è Anthony Bourdaincuoco, scrittore e presentatore tv americano che ha ridato dignità al cibo di strada che lo considera “la vera alternativa al fast food, ma più veloce e nella maggior parte dei casi più sana”. Così in virtù di questo crescente interesse per il cibo di strada in Italia è stato stilato il decalogo dello streetfood basato su: un rispetto della storia e delle tradizioni, su un utilizzo di ingredienti tipici e tradizionali del territorio di appartenenza, sull’adozione di un’etica nello svolgimento della professione e nel rispetto di un sapere e saper fare tramandati, sul rispetto nel legame con il territorio di appartenenza del cibo di strada, su un utilizzo di  strumenti artigianali, originali o rivisitati per la preparazione, cottura e somministrazione del prodotto (padelle, testi in terracotta, refrattaria, metallo, teglie etc…), sulla sicurezza dell’igiene e infine su una promozione del territorio in virtù “che i solo i cibi di strada possono e devono essere consumati in loco per non modificare le caratteristiche tradizionali del loro consumo.” Così la celebrazione del cibo di strada diventa consapevolezzadi uno straordinario patrimonio economico, culturale, antropologico, sociale, perché nei cibi di strada, alimenti poveri e umili, si può leggere questa storia, e si può rintracciarela nostra memoria gastronomica, come testimonia la storia che accompagna il panino con la milza o panino cameusa che sembra risalire al medioevo, quando gli ebrei palermitani non potendosi permettere di accettare denaro per la macellazione della carne e per la cui attività sembravano eccellere, accettavano come ricompensa le interiora che una volta bollite rivendevano ai cristiani… Questa tradizione, una volta cacciati gli ebrei dalla Sicilia, fu passata agli strati più poveri che beneficiavano dei cosiddetti scarti alimentari dei più nobili. Quindi adesso, una volta stimolata la vostra curiosità,  non mi resta che augurarvi “buon appettito!”.

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