da Bianca Fasano
Di anno in anno, più di sempre, a noi insegnanti sembra di comprendere che molti dei nostri allievi non vengano con piacere a scuola. Forse è un gentile eufemismo: non vorrebbero venirci per niente, neanche più per trascorrere del tempo assieme ai loro simili, che possono incontrare altrove, laddove “altrove” può anche significare il variegato mondo del Web. Verrebbe fatto di pensarlo anche ascoltando l’urlo di consenso che sale dalla strada, quando, sotto scuola, l’ennesimo evento di spargimento di creolina li “costringe” ad allontanarsi. Fatti salvi ovviamente coloro che contrastano tale asserzione. E in Campania abbondano anche i veri e propri atti di vandalismo: San Sebastiano al Vesuvio 2 ottobre: allagamento nel liceo scientifico “S. Di Giacomo”.14 ottobre, nuova irruzione nella struttura di Via Falconi e nuovo allagamento con lo sperato (e disperato) blocco delle lezioni. 30 ottobre, nella scuola primaria “Pertini” di Via Falconi (non si può pensare certo ad allievi), ignoti appiccano, il fuoco ad un armadietto pieno di libri ed i pompieri domano rapidamente le fiamme. Cosa che purtroppo non accade il primo novembre, alla scuola primaria “E. Toti” di Via Principessa Margherita: due aule semidistrutte, ingenti danni all’impianto elettrico e il timore che l’incendio distruggesse l’intero Edificio.
Eppure la necessità della scolarizzazione viene da lontano ed ha avuto un percorso complesso e difficile, in un mondo dove ai giovani non era permesso di esserlo. Basti ricordare che fino alla metà del sec. XIX i tre quarti circa della manodopera impiegata nelle fabbriche tessili inglesi erano donne e ragazzi fra i dieci e i diciotto anni. Per anni, ed occorrerebbe forse ricordarlo ai nostri giovani, l’infanzia non è esistita: “Egli era davvero malvagio contro chi lo maltrattava, torvo, ringhioso e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincattucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel pane di otto giorni, come facevano le bestie sue pari; e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo, e gli tirava dei sassi, finché il soprastante lo rimandava a lavorare con una pedata“. Non è senza ragione gli scrittori dell’epoca ponevano in luce la sofferenza di questi ragazzi privati dell’infanzia e la feroce indifferenza degli adulti nei loro confronti. In Italia, con la creazione delle prime Scolette e Custodie, non c’era l’intervento del Governo o di un non esistente “ministero per l’istruzione”, ma di privati ed enti religiosi che assolvevano il compito di ridurre l’altissimo tasso di analfabetismo e di consentire alle madri operaie di andare al lavoro, non lasciando incustoditi i figli. Pessima la qualità dell’istruzione e dell’igienicità dei luoghi in cui questa era impartita. I Brefotrofi accoglievano i bambini del popolo e i bambini abbandonati. Che erano troppi. Giungiamo alla metà dell’ottocento, con la comparsa dei primi pedagogisti, per cominciare a concretare l’idea di una struttura che fosse indirizzata all’insegnamento ed alla cultura, più che alla custodia ed alla sorveglianza Nasce con loro anche una maggiore attenzione nei confronti del bambino, tenendo presente la necessità della sua educazione, cercando, probabilmente, di accentuare l’utilizzo di strutture nate ad hoc anche allo scopo di diminuire i casi di abbandono e morte infantile (cosa che non è risolta completamente neanche oggi). In Italia, alla fine del 700, il primo problema era nel far comprendere alle famiglie poverissime che un loro figlio non doveva più essere inteso come forza lavoro utile alla famiglia stessa, ma come individuo che, acculturandosi, avrebbe potuto raggiungere l’emancipazione sociale ed economica. Occorrerebbe ricordare ai nostri giovani che questo problema, per una parte del mondo “civile” e globalizzato odierno, come ben sappiamo, non è per nulla risolto: “La povertà aumenta il rischio che i bambini siano coinvolti nel lavoro” – denuncia Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro Secondo le stime ILO (International Labour Organization). 215 milioni di piccoli “INVISIBILI”, a livello internazionale, di cui ben 115 milioni svolgono attività pericolose, soprattutto nell’agricoltura. Di questi quarantuno milioni sono femmine e settantaquattro milioni maschi. E’ cosa certa che molti di questi bambini lavorino in condizioni disumane. Mentre i nostri ragazzi urlano di gioia nel non entrare a scuola. Tornando in Italia agli inizi dell’ottocento, si cominciò a comprendere che la scuola dovesse essere gratuita, ma anche obbligatoria. Dice in tal senso il Genovesi: “vi è qui un circolo vizioso: senza scuola non acquista fondamento il concetto di infanzia e senza quest’ultimo concetto non sembra aver senso la scuola. Comunque stiano le cose è certo che in situazioni economiche drammatiche ed assolutamente precarie, il togliere delle braccia lavorative da una famiglia è un momento di ulteriore crisi insopportabile.” Problema che esiste ancora oggi dove la mappa del lavoro e dello sfruttamento minorile si evidenzia chiaramente sia nel Mezzogiorno sia nel Nord-est. Più presente, ovviamente nei casi in situazioni di degrado familiare e sociale, sommandosi a carenze infrastrutturali che permettono maggiore criminalità organizzata, alti tassi di disoccupazione e povertà. Non è dunque cambiato molto dai tempi che lamentava il Genovesi e la cosa dovrebbe quantomeno sorprendere. Fatto sta che a fronte della poca o molta voglia di studiare da parte di alcuni ragazzi, si pone la necessità economica delle famiglie (lavoro giovanile), o, cosa ancora peggiore, la possibilità dei ragazzini di entrare a far parte di una manovalanza illegale (di ogni possibile tipologia, compresa quella sessuale). Al primo censimento post-unitario del 1861, fu rilevata una media di analfabetismo del 75%, dato tanto più drammatico quanto più si andava a sud e più diffuso tra la popolazione di sesso femminile. Ma tornando ad oggi, Vittoria Gallina (docente dell’Università la Sapienza di Roma e Roma3) asserisce: «Parliamo di casi di analfabetismo funzionale, o di illetteratismo, nei casi di persone che hanno avuto occasione di sperimentare un percorso scolastico, anche molto breve ma hanno comunque una modalità estremamente ridotta di usare gli strumenti appresi». E scopriamo che si tratta dei ¾ della popolazione studiata, suddivisi in un 5% di popolazione che pur avendo frequentato la scuola presenta fenomeni gravi di regressione culturale al limite dell’analfabetismo, e una massa, circa il 70% della popolazione, che ha competenze estremamente limitate. Ai primi del 900 dobbiamo ricordare che l’inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia di Francesco Saverio Nitti (1910) rilevò un cambiamento: “Vi era in passato una grande indifferenza da parte delle classi borghesi per la diffusione dell’alfabeto: era in molti comuni una vera diffidenza. Ora tutto ciò è mutato, sopra tutto coll’emigrazione. Se ancora i galantuomini sono spesso diffidenti o indifferenti, è spesso il popolo che reclama una migliore istruzione […]. Molti contadini, invece di dolersi delle sofferenze materiali che li affliggono, si dolevano della poca istruzione […] si dolevano che le scuole andassero male o per incuria del municipio, o per deficienza di locali, o per colpa del personale insegnante […]. Molto progresso vi è rispetto alla frequenza delle scuole elementari ed alla coscienza di esigere questo servizio dal municipio. Ciò si deve […] all’emigrazione. Gli emigrati scrivono dall’America alle loro mogli di mandare i figli a scuola. Si deve a questo se le aule scolastiche sono oggi affollate ed insufficienti, in molti comuni, a contenere gli alunni.”- Condiviso da Gaetano Salvemini, in un’inchiesta affine svolta in Calabria:- “il desiderio dell’istruzione si è manifestato ovunque ardentissimo da dieci anni a questa parte per effetto dell’emigrazione negli Stati Uniti.” Trovo davvero che vi sia qualcosa su cui meditare: 1) la globalizzazione non ha reso a tutti i bambini del mondo una reale possibilità di vivere la propria infanzia. 2) Ai primi del 900 gli italiani sembravano avere compreso, soprattutto nelle classi meno abbienti, che la cultura poteva fare la differenza tra una speranza più certa in un domani economicamente e socialmente valido e la negazione di questa. 3) i giovani non vedono la scuola, la cultura scolastica, il successivo iter universitario (i possibili dottorati di ricerca, laddove possano trovarvi spazio), come una realtà di miglioramento sociale economico. Non sembrano rendersi conto di essere dei fortunati, rispetto ai tanti bambini che non possono recarsi a scuola serenamente e non credono più che cultura e alternative di vita migliori camminino di pari passo. Una ben triste considerazioni da farsi ad oltre 100 anni da quei difficili tempi delle migrazione italiana.