Un gioco da ragazzi

di Michele Ingenito

 Il ‘conflitto’ di interessi di questa prima opera narrativa del giovane scrittore salernitano Emilio De Filippo sta nella piacevolezza del narrare, da una parte (lo stile, intendo), e la ‘latitanza’ della trama, tradizionalmente intesa, dall’altra. Una storia, cioè, non dotata di quell’unico filo conduttore, che dovrebbe iniziare e concludersi nel rispetto della coerenza della storia. Il tutto nel solco della tradizione classica del genere letterario tra i più amati in assoluto, il romanzo. La consapevolezza della tradizione e del rispetto delle sue regole appartiene ad un’epoca storica consacrata al romanzo. Dalle sue origini settecentesche risalenti al celeberrimo Robinson Crusoe di Daniel Defoe all’Ottocento europeo, non senza autorevolissime appendici nel prosieguo del secolo successivo e fino ad oggi. L’azzardo critico non è mai legittimo allorquando si pretende di definirne le regole. Semplicemente perché la scrittura, attraverso il genere narrato, appartiene alla creatività dell’autore, alla sensibilità che ne genera il linguaggio, a quella genialità che comunque risponde all’ispirazione e che conseguentemente agisce senza codici e senza riflessi condizionati. Se così non fosse, il grande mondo della letteratura si esaurirebbe tra gli stagni delle regole ‘certe’ – che tali mai sono – e della non minore presunta ‘certezza’ delle loro inevitabili retoriche. Quelle, cioè, dello scrivere e del descrivere sempre e comunque in omaggio ai modelli, ai codici, alla loro inesistenza ed illegittimità. Ciò premesso, la scelta di De Filippo di privilegiare il linguaggio attraverso l’articolazione piacevole dei dialoghi, a volte coinvolgenti, pone una pietra miliare certa in questa sua iniziale esperienza narrativa. Man mano che la lettura procede, si sviluppa nel lettore l’interesse intorno ai suoi coloriti personaggi, balordi quanto si vuole, ma accomunati da una crisi dell’esistenza e del bisogno che ne rende a tratti infantili e monotoni i comportamenti. Infantili non solo per l’età dei protagonisti (salvo qualche eccezione), ma per l’incapacità di coniugare la difficoltà dell’impresa criminale programmata con la dovuta ‘professionalità’ ed esperienza. Ne viene fuori l’intera crisi del mondo giovanile, dei valori, di quella commedia umana che transita con stupefacente ironia tra i cuori e le speranze di una muta di giovinastri pronti a recidere, alla loro non imitabile maniera, l’eterno giogo cui una società impietosa e prepotente, distratta e supponente li tiene comunque avvinghiati. Da qui l’idea più balorda e semplice insieme per fare soldi. Unirsi per rapinare e rapire, rapire e rapinare per vivere bene. Eterna, imperfetta incompiuta del sogno. Fin quando la tragedia non esplode inavvertitamente, ma altrettanto drammaticamente, in un finale ad effetto assai doloroso e inatteso. Non si sottrae, l’autore, all’affanno narrativo per tradurre il dramma esistenziale di una società giovane e moderna. Gli spiccioli di una filosofia fatta in casa si impongono all’attenzione del lettore, proprio nel richiamo dei valori apparentemente effimeri della vita:

“In fondo ci sono anche dei vantaggi ad essere povero. Non hai nulla che la gente possa volere di tuo” (p. 208).

E così via nel labirinto infinito delle massime approssimative, che mai dispiacciono, che spesso ricollocano quei giovani aspiranti criminali nel più confortevole ambito delle certezze interiori e della loro tutela. Fino a riassaporare grazie ad un moderno Don Gallo (padre Oreste) i valori infiniti di una Bibbia fino a quel momento trascurata, “stringendo tra le braccia il Sacro Libro come un bimbo che stringe il suo orsacchiotto.” (p. 217). Non mancheranno le crisi, il rifiuto di Dio e della sua esistenza (Luca, p. 225). Ma, nel triste ed eterno gioco delle disperazioni giovanili, ci sta tutto, anche questo. In meno di una decade, dal 3 al 9 giugno 2013, si consumano una storia, una speranza, un dramma. Quella trama inesistente, perché mai ancorata alla tradizione classica del genere, riaffiora indirettamente, come ricavo esclusivo della meditazione di chi legge. E’ l’unica scorciatoia per recuperare. Lasciando che i filtri di una narrazione ispirata al richiamo separato dei valori, della loro esistenza indirettamente auspicata grazie proprio a quei giovani criminali in pectore si consolidino attraverso la formulazione di un messaggio comune. Della solidarietà e della speranza finale dell’esistente e per l’esistente, a fronte di un fallimento ingenuo e per molti aspetti inevitabile di una congiura di giovani vite contro la vita, contro se stessi, cioè, contro un mondo non facile, ma indissolubilmente stretto alle regole impietose del proprio sistema. E a questo punto anche la trama, una certa trama che riaffiora dal di dentro più profondo dell’animo umano nel suo insieme, ricompare alla mente come per magia, lasciando libero il lettore di costruirsela in ragione dei propri valori e della propria etica, concedendo all’immaginario collettivo la libertà di trasformarla in un’autonoma e più che consapevole coscienza di classe C’è ancora molto da lavorare, certo. Ma le premesse essenziali sono state poste adeguatamente, a mio avviso, in questa iniziale esperienza narrativa di Emilio De Filippo. Bene ha fatto, quindi, l’Editore Meligrana a pubblicarla, con una indiscussa qualità dell’abito editoriale prescelto, dopo avere intuito le indubbie capacità narrative ed artistiche di questo giovane e promettente scrittore salernitano.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *