di vania de maio (da Salvatore Villani)
A partire dalla metà degli anni ’60 (anche per superare i fenomeni di tensione sociale del precedente decennio), si è andato progressivamente affermando, in una parte dell’Europa, un modello economico e sociale basato su una forte presenza dello Stato nell’economia, grazie alla diffusa convinzione della sua concreta ed efficace capacità di intervento in molti settori della vita economica, compresi quelli che non sono abitualmente caratterizzati da fallimenti del mercato. Lo Stato apparve in grado di rafforzare la propria presenza anche nella fornitura dei servizi sanitari, scolastici e socio-assistenziali, coprendone il costo attraverso il ricorso alla fiscalità generale. Si andò così affermando quel pregiato modello economico-sociale che è considerato l’“anima” della costruzione europea, o quanto meno uno dei suoi principali valori. Tuttavia, già dagli anni ’80, tale modello è stato oggetto di forti critiche a causa dei costi connessi e soprattutto, perché – a dire di alcuni economisti (i neo-liberisti europei più ortodossi e un’ampia e trasversale schiera di economisti americani) – impedirebbe alle forze della crescita e del progresso di materializzarsi in innovazioni ed investimenti, facendole infrangere contro una distorta struttura di incentivi.La crisi finanziaria del 2008 ha in seguito innescato una crisi più generale dell’Europa, alla quale le istituzioni europee hanno cercato di rispondere con interventi tardivi e dagli effetti limitati, mentre Berlino imponeva politiche recessive di austerità e rigore, basate su rilevanti tagli alla spesa pubblica e su un incremento della pressione fiscale. Tutto ciò ha prodotto gravissimi effetti sul tessuto sociale ed economico dei singoli Paesi: le attese di un’intera generazione sono state ridimensionate di colpo e si è andata progressivamente affermando l’idea del nostro Welfare come un “bene di lusso” che “non ci possiamo più permettere”, giacché mantenendo alcune conquiste sociali “abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi”, smettendo così di crescere.Quest’idea ha fortemente ispirato l’azione del Governo italiano e le misure da esso previste, a più riprese, per fronteggiare la presente situazione di crisi senza tuttavia contravvenire agli impegni presi con l’Europa. Ricordiamo, a tale riguardo, la riduzione dei trasferimenti agli Enti territoriali, l’inasprimento del sistema sanzionatorio previsto dal patto di stabilità interno, le norme sul contenimento delle spese di personale nelle amministrazioni locali, il recepimento della nuova direttiva UE sui ritardi di pagamento, la progressiva riduzione delle possibilità di indebitamento degli Enti locali e, da ultimo, il rilevante ridimensionamento dei fondi previsti per i servizi sociali. Tutte misure che, a giudizio di molti, sono in grado di generare effetti dirompenti, sia sui cittadini, sia sull’intera economia locale e nazionale. E allora ecco la protesta di governatori e sindaci, volta a denunciare le difficoltà economiche in cui versano le amministrazioni locali e a proporre soluzioni alternative, anche più incisive, al fine di promuovere il rilancio dell’economia e garantire, al tempo stesso, la tenuta del sistema sociale. Accanto al problema della sostenibilità finanziaria delle politiche anticrisi si pone, infatti, l’ulteriore questione della sostenibilità sociale delle stesse, una questione che è stata solo parzialmente tenuta in considerazione dalle misure previste nella legge di stabilità per il 2013 e che non può assolutamente essere posta in secondo piano.A questo riguardo, da tempo è stata avanzata una proposta di legge (A.C. 4145) che meriterebbe un’attenta considerazione: si chiede di annoverare i servizi sociali tra i servizi indispensabili e, conseguentemente, di escludere le somme destinate alla loro prestazione dall’assoggettabilità ad esecuzione forzata nei riguardi degli Enti locali. Si tratta, indubbiamente, di una proposta di civiltà e di buon senso: nemmeno “ci possiamo permettere” di smantellare del tutto il nostro stato sociale! Si rischia, altrimenti, di violare il dettato stesso della Costituzione. Occorre aggiungere, tuttavia, a questo proposito, che, ove pure si stabilisca che l’Ente locale è tenuto o ha titolo a svolgere, in diverse sedi (determinazione dei trasferimenti erariali; procedura di dissesto), una certa attività (servizio indispensabile), ciò non risolve il problema. Resta infatti la difficoltà di determinare un livello di spesa, o di prestazione, che possa affermarsi “indispensabile”. Resta cioè la questione della determinazione e della tutela dei “livelli essenziali delle prestazioni”, un’operazione prevista persino nella nostra Costituzione, con la riforma del 2001, e ad oggi rimasta ancora inattuata.