Alfonso D’alessio
Federalismo o no? Più stato o più regioni, chi non si è mai posto questo interrogativo? Costituzionalisti, studenti universitari, giornalisti, opinionisti, casalinghe, tutti si sono cimentati nell’esprimere un parere su un tema di riforma che pareva essere epocale. È vero, nel tempo dell’immobilismo anche una foglia che cade ottiene il privilegio di essere osservata come un fenomeno raro. Eppure chi avrebbe immaginato nel 2001 che i mali di oggi, di un regionalismo divoratore dei sacrifici dei cittadini, dell’arroganza di un vassallo che con sadismo da manuale ostenta le indecenze di cui è stato capace, risalgono proprio ad una riforma partorita da sentimenti del ventre più che dalla nobiltà della mente? Se n’è accorto anche il governo Monti che ha approntato l’ennesimo progetto di riforma costituzionale. Competenze che passano dallo stato alle regioni, poi dalle regioni allo stato attraverso altalenante andirivieni che, se non fosse per la drammaticità degli effetti sui cittadini, farebbe quasi ridere. Due riflessioni mi sovvengono e stimolano il mio impenitente spirito d’osservazione. La prima attiene ai costi. Quelli del tentativo di mettere su un federalismo folkloristico sono stati, e sono tutt’ora, esosi. Sprechi, apparati burocratici che si sono moltiplicati, organi di coordinamento a iosa, viene quasi il sospetto che in questi anni sia stata la via maestra per un nuovo e aggiornato modello di mungitura di uno stato ormai esausto e al limite delle proprie possibilità. La seconda nasce da un’impietosa constatazione. Il federalismo era stato voluto per razionalizzare le spese, lasciare le ricchezze sul territorio, farle gestire da amministrazioni più vicine alla gente, sembrava la panacea di tutti i mali. Ora s’invoca, per lo stesso motivo, il ritorno dello stato. Qualcosa non torna. Potrebbe significare che il problema principale non sia l’organizzazione ma l’uomo. Mi spiego. Se l’uomo resta lo stesso, carico di bramosia dell’avere più che dell’essere, desideroso di accrescere il proprio patrimonio personale piuttosto che quello di una comunità, egoista ed individualista e chiuso al bene comune, ecco che il sistema organizzativo entro il quale cerca di perseguire i suoi fini diventa solo accessorio e strumentale. In altre parole muta il sistema ma il fine resta lo stesso. Il vero cambiamento, che diventa prioritario a qualsiasi scelta organizzativa, deve avvenire nell’orizzonte dell’agire umano. La meta deve essere il bene comune, la via il principio di solidarietà e di sussidiarietà, cioè il “materiale” deve tornare ad essere mezzo e non fine incatenante della volontà umana.