Aldo Bianchini
SALERNO – L’ 11 settembre del 2009 (tre anni fa) mi trovavo a New York. Dopo due giornate di splendido sole, quella mattina presto incominciò a piovere senza sosta per tutta la giornata. Manhattan si presentava avvolta, tutta intera, in una coltre di nebbia, non fitta ma molto fastidiosa. Uscii dall’albergo, il Roosevelt Hotel deciso a seguire nonostante la pioggia insistente la cerimonia di commemorazione dell’ottavo anniversario dell’attentato alle mitiche Torri Gemelle del World Trade Center, vero cuore pulsante dell’economia mondiale. Sulla torre aperta ai visitatori c’ero salito, fortunatamente, nel settembre del 1985 e dalla sua sommità avevo potuto ammirare e godere un panorama unico al mondo, con lo sguardo che andava dal Central Park all’ Hudson River passando per Wall Street fino alla Statua della Libertà in piena baia verso l’oceano Atlantico. Nonostante fossi bagnato fradicio, la mattina dell’ 11 settembre 2009 ho avuto modo di vivere un momento veramente molto emozionante che rimarrà per sempre nei miei ricordi. La composta sofferenza degli americani mi è rimasta impressa nella mente. C’erano blocchi stradali dappertutto, lo schieramento delle forze di polizia era imponente, tutti i punti caldi e gli obiettivi sensibili erano letteralmente presidiati. Doveva arrivare Barack Hussein Obama, il presidente, per la sua prima volta come presidente nel famosissimo “Ground Zero”, il buco nero della più grande umiliazione mai subita nella storia dell’America. L’inattaccabilità del suo territorio era stata di colpo cancellata da quattro aerei che per ore avevano solcato i cieli degli USA, inspiegabilmente fuori da ogni sistema di controllo. Camminavo, ovviamente, a piedi sotto la pioggia insistente e pensavo a tutte queste cose quando all’improvviso le sirene della NYPD (New York Police Department) squarciarono l’aria. Mi fermai immediatamente per assistere al passaggio del lungo corteo di auto del Presidente degli Stati Uniti d’America; rimasi immobile per qualche minuto, il tempo necessario che il corteo passasse. Mi scossi per ritornare me stesso, ero rimasto colpito dal fatto che un senso di nazionalismo si era insinuato in me ed aveva percorso tutto il mio corpo. Raramente, forse mai, avevo provato quel tipo di emozione nel mio Paese, in Italia. Soltanto in occasione delle due finali mondiali vinte dalla nostra nazionale di calcio nel 1982 e nel 2006 avevo provato qualcosa di simile a quel “senso di appartenenza” che caratterizza tutti i cittadini statunitensi. Non nascondo che in quel momento, sul larghissimo marciapiede dell’Empire State Building, provai un leggero sentimento di invidia nei confronti del popolo americano che crede fermamente nelle sue giovani tradizioni e nelle sue forti istituzioni, di qualsiasi colore esse siano. Tanta era la folla che aveva invaso le strade intorno al Ground Zero che non riuscii ad avvicinarmi più di tanto al punto giusto per poter meglio osservare la gestualità di Obama che, comunque, intravidi più volte accanto alla sua Michelle attraverso le braccia della folla osannante. Dopo la cerimonia rimasi a lungo fermo prima dinnanzi all’enorme Crocifisso (recuperato dalla macerie) che ricorda tutte le vittime dell’attentato e poi vicino allo steccato che delimita la strada dal buco nero. Nella immobile staticità del Crocifisso vidi la grande forza americana per ripartire dopo grandi dolori, dalle foto illustrative del progetto avveniristico che sta nascendo da quel buco capii che per l’America l’attacco alle Torri Gemelle aveva avuto l’effetto di una puntura d’ago sul dorso di un elefante e che l’America stava già reagendo con tutte le sue forze. La stessa cosa, ricordai, l’aveva detta il comandante in capo della marina giapponese, Isoroku Yamamoto, la mattina del 7 dicembre 1941 qualche minuto prima che ordinasse l’attacco a sorpresa su Pearl Harbor. Completamente bagnato ma contento e soddisfatto rientrai, sempre a piedi, in albergo.