Alfonso D’Alessio
Le feste patronali, quelle in cui tutto il paese o l’intero quartiere di una città si ritrovano intorno al loro patrono, sono da sempre manifestazioni controverse. Contaminazioni con il malaffare, cedimenti alla superstizione, volano di interessi economici, sono solo alcune delle critiche che ad esse si muovono. Certo queste osservazioni nascono da una lettura unilaterale che omette, sovente, di cogliere serenamente gli aspetti positivi che pur sono presenti. Aggregazione sociale, crescita del senso di appartenenza ad un territorio, ad una comunità, sviluppo dell’identità religiosa di cui oggi tanti si vergognano ignorandone l’origine e l’importanza per l’integrazione civile. Soprattutto dimenticano, o volutamente non si curano, di evidenziare per quale motivo sono nate e riscontrano tutt’ora tanto successo. Si commette l’imperdonabile approssimazione di confondere la degenerazione dello stile con la nobiltà del fine, e da più ambienti, anche clericali, si alzano voci che inneggiano alla soppressione o moratoria di esse. Eppure ci si dovrebbe chiedere se è possibile etichettare come inutili, strumenti attraverso i quali i nostri genitori, le nostre nonne hanno camminato verso la santità. Un principio, dunque, va subito chiarito. Il malato va curato e non soppresso. Comprendo che la seconda via sarebbe più veloce, agevole, e rispondente ad altri interessi non sempre in linea con la fede chi si dice di voler difendere, ma sono altrettanto convinto che la stessa incomprensibilità, e infondo inutilità, di una soppressione del malato la si possa ritenere per il caso delle feste popolari. Invece di fare i funerali o affrettarsi a sbaraccare, lasciando completamente il posto ad altri, auspicherei più opportuno domandarsi perché il malato si è ammalato? Dov’è avvenuta la contaminazione nei casi in cui è riscontrabile? Superato il timore di un sano esame di coscienza e di una adeguata autocritica, potremmo trovare la cura. Eviteremmo anche l’incognita alla quale un digiuno ferreo ci esporrebbe, quella cioè al momento del nuovo appetito, di ritrovarci soli e fuori del tempo. Francamente, infischiandomene di correre il rischio di entrare nell’inutile vortice dell’essere etichettato come conservatore o progressista, debbo dire che la polemica la trovo sterile e fine a se stessa, e la ricerca di quale cura opporre per la guarigione, inutile. La cura di fatto c’è già, ed è contenuta nel corretto sentire ecclesiale verso tali manifestazioni. Il Magistero delle Chiesa, in tal senso, è guida illuminata. Esso ci dice che la manifestazione della pietà popolare non è superstizione, non è occasione di ossequio al potente di turno che professa l’ateismo, e poi per rincorrere i voti, rincorre la statua di un santo in processione, non è nemmeno il tributo del paese al galeotto di turno, che agli arresti domiciliari, pretende l’inchino del simulacro quando gli passa innanzi. Essa è testimonianza della fede di una comunità, che esprime l’essere in cammino verso la perfezione che tutti agognano ma verso la quale pochi desiderano camminare, trovando più facile la critica da poltrona. E’ il senso di un popolo che si raccomanda all’intercessione dei santi dopo essersi accollato l’onere di lottare con tutto se stesso contro il peccato, e aver dichiarato l’intenzione di perseguire il bene comune. Tutto questo darebbe spazio pure all’evoluzione dei costumi sociali. Squarciamo il velo dell’ipocrisia, e ammettiamo schiettamente che se siamo giunti ad un livello di guardia rispetto a tali manifestazioni, è forse perché i cristiani già formati, clero e fedeli tutti, non hanno saputo tenere negli argini l’esuberanza, hanno preferito, qualche volta, l’omertà alla denuncia e al coraggio. Allora ben vengano le inchieste giornalistiche e i dibattiti. Quando condotti correttamente aiutano a capire e diventano sprone a manifestare la fede popolare secondo le intenzioni della chiesa. In caso contrario, più o meno consapevolmente, prestano il fianco proprio a ciò che dicono di voler correggere. Altro che sopprimere!