Alfonso D’Alessio
La sfida è grande, la meta ambiziosa ma la chiesa al sud esiste e lavora. Si chiama Progetto Policoro ed è uno degli strumenti operativi attraverso il quale la chiesa, in modo organico, tenta di dare una risposta al problema della disoccupazione al Sud e all’emersione del lavoro nero. L’intento è quello contribuire, con una “rete” che sappia stimolare tutte le realtà ecclesiali sul territorio, ad una sinergia di sforzi che porti a una nuova mentalità verso il lavoro. La proposta è di ispirarsi ai valori umani e cristiani della solidarietà e della cooperazione anche avviando nuove attività produttive curandone sia la formazione che la messa in opera. Il fulcro è incentrato sui rapporti di reciprocità tra le diocesi italiane in modo che lo scambio di “doni” diventi segno tangibile della comunione ecclesiale che è fermento di solidarietà e di unità nazionale. L’attività concreta del progetto si è radicata nella maggior parte delle diocesi del Mezzogiorno (Abruzzo, Molise, Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia). Ha favorito la nascita di oltre 500 esperienze lavorative (consorzi, cooperative, imprese…) che danno lavoro a circa 3000 giovani e che hanno il senso di tracciare una strada possibile, di ridare fiducia alle persone, di proporre un modo diverso di vivere l’impegno civile, di richiamare all’assunzione di responsabilità individuali e comunitarie. E’ un’idea che si organizza e diviene impresa, è stato il sogno realizzato di don Mario Operti, prete del nord, per i disoccupati del Sud. I vescovi nel documento della Conferenza Episcopale Italiana del 21 Febbraio 2010 Per un paese solidale. Chiesa Italiana e Mezzogiorno, invitano particolarmente i giovani a mettersi alla scuola dei testimoni di cui anche il sud è pieno. Per esempio don Pino Puglisi, prete palermitano, che seppe “magistralmente coniugare le due istanze fondamentali dell’evangelizzazione e della promozione umana”. Concreto è l’impegno di Mons. Giancarlo Bregantini, già vescovo della locride e ora a Campobasso, che con il suo sostegno alle cooperative sociali antimafia ha tolto dalla strada tanti giovani che altrimenti sarebbero potuti diventare esche per le cosche. Questi “santi testimoni”, di cui molti ancora viventi, si battono parimenti per sconfiggere una delle piaghe che ha diffusione nazionale ma che nel nostro sud raggiunge livelli di guardia: quella del lavoro nero. Questa è una realtà diversa dalla disoccupazione e dall’inoccupazione, anzi se facessimo una valutazione più approfondita scopriremmo che tende ad abbassarne i numeri statistici. Di fatti se in una città come Napoli o come molte altre del mezzogiorno, il numero di chi davvero non può contare nemmeno su un euro corrispondesse ai dati statistici dei disoccupati, ci troveremmo al cospetto non solo di un’emergenza sociale ma di un vero e proprio dramma. Rischieremmo inoltre di avere reazioni imprevedibili da un momento all’altro che sfuggono ad ogni forma di controllo. Ma questo non deve indurre all’ottimismo o ad abbassare la guardia nei confronti di un fenomeno così grave. Il fatto del lavoro sommerso o in nero non presenta solamente risvolti economici, bensì sociali, in quanto gli effetti si ripercuotono pure sulla sfera privata, e sovente psicologica, dell’individuo costretto a tale posizione lavorativa. E’ il motivo per cui alla chiesa italiana, e in particolare ai vescovi e ai preti che operano nel mezzogiorno, sta molto a cuore il problema degli operatori illegalmente sfruttati e privati della loro dignità. Molti sono i richiami e i documenti del Magistero che ricordano come il lavoro “rappresenta una dimensione fondamentale dell’esistenza umana come partecipazione non solo all’opera della creazione, ma anche della redenzione” (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa). Il lavoro riconosciuto come diritto-dovere concorre a mettere in risalto l’identità profonda dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio e ne mette in risalto la dignità. Dalle parole di molti giovani meridionali, costretti ad emigrare per non soggiacere allo sfruttamento e rischiare di diventare manovalanza della malavita, si avverte penoso proprio lo smarrimento dell’identità e della dignità umana che li affligge. La sensazione di non avere vie d’uscita, perché se rifiutassero di essere sfruttati c’è subito un altro disponibile a prendere il loro posto, la paura di denunciare perché tanto nulla cambia, sono tutti elementi che preoccupano e fanno intravvedere all’orizzonte lo spauracchio del pericolo peggiore, quello cioè di arrendersi ad una sorta di fatalismo che taglia alla radice qualunque possibilità di riscatto. In questo contesto la Chiesa ha avuto, ed ha, un ruolo di primo piano da giocare. Innanzitutto sotto il profilo educativo, di cui l’indicazione della via della legalità come valore “non negoziabile”, l’impegno alla costanza e alla regolarità del lavoro sono percorsi fondamentali. La Chiesa ha sempre stigmatizzato senza equivoci, come fortemente contrari all’annuncio del Signore di cui essa è strumento privilegiato, gli atteggiamenti di sfruttamento dell’uomo e quindi anche del lavoratore. Con coraggio e franchezza non ha mancato di guardare perfino dentro se stessa laddove ha saputo rimarcare con fermezza, come i peccati sociali dei cattolici hanno un impatto molto forte nella credibilità, nell’azione di annuncio e di promozione umana.