Si fa un gran parlare di crisi da ormai oltre tre anni, e precisamente da quando fu annunciato il crack finanziario della Lehman Brothers il 15 Settembre 2008. Anni difficili, di recessione, in cui un po’ tutti noi abbiamo avuto a che fare con la crisi e termini quali spread, cds o fondo di garanzia interbancario sono diventati di uso quotidiano.
In Europa a partire dai primi scricchiolii dell’economia greca, la più fragile dell’Eurozona, ogni governo ha cercato di trovare delle soluzioni per arginare lo tsunami finanziario generato dal crollo del sistema di scatole cinesi delle Assett Back Securities collegate ai mutui subprime. Un problema che ha coinvolto non solo i governi europei, ma anche gli Usa e varie istituzioni internazionali, prime fra tutte il Fondo Monetario Internazionale e l’Unione Europea.
Parola d’ordine per tutti crescita e flessibilità, minimo comune multiplo aumento della tassazione e riduzione della spesa pubblica per il ridimensionamento del deficit e del debito pubblico, riforma del mercato del lavoro, con minori tutele per i contratti a tempo indeterminato e la regolarizzazione di quelli atipici, e la liberalizzazione di alcuni settori economici, professionali e del commercio, per il rilancio di un sistema maggiormente concorrenziale.
In Italia si sta proseguendo su questo campo attraverso delle riforme che hanno lo scopo di sanare l’enorme debito pubblico accumulato e rilanciare un’economia che, anche per il 2012, si prevede in recessione (-1,3% ultime previsioni Bce e – 2,5% da stime Fmi). Un pacchetto di riforme che anche da noi ha comportato forti tagli alla spesa pubblica, un aumento della tassazione e che ha aperto un dibattito con le parti sociali per la riforma dell’articolo 18 e più in generale del contratto di lavoro a tempo indeterminato.
A mio parere, oltre alla corruzione che causa una forte perdita per l’economia (secondo stime ammonta a circa 60 miliardi di euro), la crescita economia italiana non sarà di certo favorita né dal taglio della spesa pubblica e dall’aumento delle tasse, che andranno a ridurre il reddito disponibile innescando un circolo vizioso di riduzione dei consumi e della base imponibile, né tantomeno da una modifica dello statuto dei lavoratori. Minori tutele non significano solo maggiore produttività, ma anche più precarietà per milioni di cittadini che lavorano come dipendenti.
Basta domandarsi se, con minori tutele in termini contrattuali, un istituto bancario concederà con la stessa tranquillità un mutuo per acquisto casa o potrebbe chiedere di sottoscrivere qualche assicurazione a latere o un tasso di interesse maggiore per coprirsi dal rischio di perdita del posto di lavoro.
Non è un caso che negli Stati Uniti, dove il mercato del lavoro è estremamente flessibile, il numero di proprietari di immobili sia notevolmente inferiore rispetto al nostro paese.
Per i grandi gruppi industriali minori tutele ed un articolo 18 riformato potrebbero essere una buona occasione, secondo quelli a favore delle modifiche, per garantire livelli occupazionali nel nostro territorio ed evitare che le produzioni si traferiscano altrove; questa ricetta, a mio avviso, sembra non essere la giusta via d’uscita alla crisi: i grandi gruppi vedranno comunque poco convenienti, in termini di costi, i nostri operai rispetto ad un serbo, un cinese o un rumeno, che accettano buste paga inferiori ai 300 euro mensili e sono disposti a lavorare con minori tutele e contratti di lavoro a tempo determinato, spesso inferiore ai sei mesi: non basterà una modifica dell’articolo 18 a fermare la ricerca di profitti più facili per le grandi aziende.
La ricetta per la crescita in Italia dovrebbe poggiare su due punti:
– Maggiore accesso al credito
– Innovazione e ricerca
Maggiore accesso al credito, soprattutto per le aziende medio piccole: si è sentito parlare di credit crunch da parte del sistema bancario. Una ripresa economica deve passare per una maggiore facilità di accesso al credito per le aziende; la Bce ha erogato in varie tranches alle banche europee grandi masse monetarie che dovevano servire a fornire liquidità agli istituti di credito in difficoltà e a sostenere le imprese, soprattutto le medio piccole a reggere gli impatti della crisi. Le banche stanno procedendo nella direzione opposta, ovvero, chiedendo il rientro dai fidi alle aziende (medio piccole) in difficoltà, obbligandole a ridurre le spese in investimenti e spesso a dover chiudere.
La liquidità in mano alle banche fornita dalla Bce è servita a ridurre le loro esposizioni debitorie e la parte eccedente, invece di essere immessa nel mercato sotto forma di finanziamenti o fidi alle imprese è stata depositata presso la Banca Centrale nuovamente, sotto forma di depositi overnight: in parole povere, è stata investita per produrre interessi attivi per le banche stesse. Ci vorrebbero degli interventi di espansione monetaria ad hoc da parte dell’istituto di Francoforte, mirati a sostenere le imprese sane ma attualmente in una situazione di difficoltà legata al particolare momento di crisi.
Capitale umano: l’Italia, come la Spagna, il Portogallo o la Grecia sta subendo in questi anni la più grave emorragia di cervelli dal dopoguerra ad oggi. Un’emigrazione, non più di manodopera a bassa specializzazione per le grandi industrie del nord Europa, ma di giovani laureati in cerca di occupazione.
Basta girare per le strade di Lisbona per vedere file di giovani ai consolati del Brasile o dell’Angola, ex colonie lusitane e nuovi tigri economiche, richiedere il visto ed emigrare in cerca di lavoro. Stessa scena a Madrid o Barcellona, dove la fila la si fa per emigrare a San Paolo del Brasile, Buenos Aires o Santiago del Cile, o ad Atene dove si punta al Nord Europa.
Perdere il proprio capitale umano è una grave perdita per una nazione, un cervello in fuga è un danno per la crescita economica e sociale di una comunità, come sosteneva nel 1992 Gary Becker, premio Nobel per l’Economia. Il concetto base è che con più cultura e capitale umano si creano delle forti esternalità positive. Ridurre gli investimenti in ricerca e sviluppo, lasciare che migliaia di laureati abbandonino il nostro paese si traduce in un doppio danno per la nostra economia:
– che ha speso in istruzione e formazione lasciando che le nazioni accoglienti ne raccolgono i frutti, laureati formati e capaci di produrre innovazioni e benefici
– che con minori spese nell’innovazione e investimenti in capitale umano perderà competitività a favore di altre nazioni in forte ascesa: basti ricordare che nell’estate del 2011 il Brasile ha creato una legge a favore dell’immigrazione culturale, e si stima che circa 400.000 spagnoli si siano diretti in Sudamerica negli ultimi anni. L’Italia, purtroppo, non è da meno in queste tristi statistiche dove ormai più del 10% dei laureati è costretto ad emigrare in Nord Europa, America o Estremo Oriente per trovare un lavoro qualificato. Una sottostima, se si considera che un alta percentuale di laureati che rimane sul nostro territorio accetta lavori poco qualificati e a scarso valore aggiunto.
Una vera ripresa dell’Europa più che nei tagli, che sono comunque necessari ma non in maniera drastica per evitare la stagnazione dei consumi, dovrebbe puntare su serie politiche di crescita attraverso il finanziamento alle imprese innovative e occupazione giovanile e qualificata.