Salvatore Torsiello: la prigionia più lunga

Aldo Bianchini

SALERNO – La mattina del 19 luglio 1993, lunedì, la tangentopoli salernitana tocca probabilmente il suo apice con un’azione giudiziaria senza precedenti. Manette per uno degli “apostoli” di Ciriaco De Mita, si tratta dell’ingegnere Salvatore Torsiello, sindaco in carico di Laviano, il paese effettivamente e totalmente raso al suolo dal terremoto del 23 novembre 1980.  Gli oltre trecento morti e i circa mille feriti avevano proiettato subito la comunità  lavianese nel centro dell’attenzione mediatica e giudiziaria. Da tempo si parla, difatti, del “sindaco pistolero” per via di un reportage pubblicato dal settimanale L’Europeo in cui si racconta di un consiglio comunale durante il quale il sindaco Torsiello aveva sfoderato addirittura la pistola dalla fondina per imporre la sua legge. Ovviamente si tratta soltanto di racconti fasulli ed inventati dalla fantasia popolare a causa dei contrasti in seno alla giunta ed al consiglio comunale per le opere pubbliche inserite nella pianificazione della ricostruzione. Negli ultimi anni ’80 addirittura un intero e lungo capitolo (circa cento pagine) della relazione prodotta dalla “Commissione parlamentare d’inchiesta Scalfaro” sui ritardi della ricostruzione parlavano soltanto di Laviano definendolo il “paese simbolo della cattiva ricostruzione e del malaffare”. Tanto che la Procura della Repubblica di Salerno, nelle mani di Ermanno Addesso, che costituì un’apposita task-force per studiare le oltre duemila pagine che la Commissione Scalfaro aveva dedicato alla provincia di Salerno e procedere ai successivi accertamenti. Sembrava che tutto il malaffare prodotto dalla ricostruzione girasse soltanto intorno a Laviano dove l’allora giovane pm Anita Mele si buttò con tutte le sue energie. Lo spazio vitale intorno al giovane sindaco Torsiello si faceva sempre più stretto, anche il clima ambientale a Laviano andava giorno dopo giorno deteriorandosi.  “Nel 1980 divenni sindaco di Laviano con un suffragio plebiscitario pochi mesi prima del terremoto. Io giovane ingegnere mi dedicai con tutto me stesso alla ricostruzione sulla scia di tutta l’azione umanitaria che insieme a mio fratello Giuseppe (medico condotto) avevamo espresso al momento della tragedia e nei mesi successivi dell’emergenza. Addirittura il capo dello stato, Sandro Pertini, sceso a Laviano in elicottero si congratulò con noi due. Poi tutto incominciò a girare nel verso contrario, la spinta la diede una sparuta opposizione interna guidata da Michele Falivena di Rifondazione Comunista. Il resto lo fece la magistratura. Non ero io l’obiettivo ma l’on. Ciriaco De Mita”. Sono queste le prime parole che Salvatore Torsiello pronuncia a distanza di venti anni da quei drammatici fatti.  Si arriva così alla mattina del 19 luglio 1993 quando, su richiesta del pm Anita Mele, viene arrestato Salvatore Torsiello nella sua abitazione salernitana di Parco Arbostella, con lui vengono tradotti in carcere anche i consiglieri comunali Antonio Dente e Archimede Caruso, i segretari comunali Nicola Parisi e Maria Rosaria Cusatti e gli ingegneri Antonio Di Vito di Salerno e Vittorio Cammarano di Ceraso. L’accusa è durissima: associazione a delinquere, turbativa d’asta aggravata, falso materiale ed ideologico. Braccato da anni, inseguito da centinaia di avvisi di garanzia, Torsiello cade sulla classica buccia di banana: una denuncia scritta e depositata in Procura  da parte di tre cittadini che chiedono spiegazioni sugli appariscenti rigonfiamenti dei costi di una decina di opere pubbliche, tra le quali una sontuosa Chiesa Madre ed il faraonico Municipio, per non parlare di una mini superstrada che finiva la sua corsa in un campo di patate. La vicenda è assurda per come, all’epoca, si sviluppò. In effetti Torsiello ed i suoi presunti complici vengono prima arrestati e poi viene trovata la prova fumante. La mattina dell 23 luglio 1993, mentre a Milano si suicida Raul Gardini e vengono arrestati Carlo Sama e Sergio Cusani (scandalo Enimont), a Laviano la pm Anita Mele irrompe presso gli uffici comunali e ritrova una busta di gara visibilmente truccata. Troppo semplice il ritrovamento che spacca in due l’opinione pubblica: la busta è stata dimenticata o è stata sapientemente preparata e lasciata lì dove il pm l’avrebbe ritrovata. Salvatore Torsiello non si scompone: “Durante l’ora d’aria andavo nel cortile del carcere ed in costume mi distendevo per terra per prendere il sole su un asciugamano, mentre gli agenti di guardia spiavano tutte le mie mosse per riferire a chi di dovere. Mi fu chiesto di spiegare a chi corrispondevano le iniziali C.DM. (Ciriaco De Mita), se avessi detto il nome che volevano sicuramente il sole sarei andato a prenderlo in spiaggia. Non avevo nulla da svelare e non rivelai nulla. Rimasi in carcere dal 19 luglio 1993 fino al 20 gennaio 1994 per ben 152 giorni. Sono stato vittima della carcerazione preventiva più lunga di tutta la tangentopoli nazionale, ho superato di pochi giorni anche quella di Sergio Cusani. Ho ricevuto circa mille avvisi di garanzia e sono stato processato 110 volte, sono stato sempre assolto”. Dopo vent’anni Salvatore Torsiello racconta queste cose con la massima seraficità, quasi come quando disteso nel cortile del carcere di Fuorni a prendere il sole aspettava gli interrogatori e la liberazione. Racconta l’ultima chicca della sua vicenda quasi ridendo: “Mi contestarono di aver ricevuto una mazzetta da 50 milioni di lire dall’imprenditore Alberto Schiavo con uno stratagemma particolare. Io alla guida della mia autovettura e lui della sua ci eravamo incrociati davanti al Bar Canasta di Piazza della Concordia. Avevo ricevuto la mazzetta attraverso i finestrini. Qualcuno aveva dimenticato che in quel tratto c’era e c’è il senso unico di marcia”. Gli stringo la mano, la breve chiacchierata finisce. Lo vedo allontanarsi ciondolante, si è appesantito rispetto a vent’anni fa, forse anche il peso della massacrante azione giudiziaria. Ora finalmente ha la mente sgombra da qualsiasi pensiero.

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