La denuncia del Presidente della Corte dei Conti sulla corruzione dilagante nel nostro Paese e, quel che è più grave, all’interno della cosa pubblica, non fa una grinza. E, quindi, neppure notizia. Senza per questo voler mancare di rispetto al più alto magistrato contabile.
Perché lo sanno tutti, ormai, perfino il cittadino più emarginato e distante dalla burocrazia, da quella che conta, da quella senza la quale non fissi un mattone alla parete di casa tua da rinnovare, non sbrogli una pratica, non acceleri i pagamenti dei contributi a chi ne ha diritto per legge.
Vedi le farmacie, che languono ai piedi di tronfi pezzi grossi della burocrazia dalla cui firma dipendono spesso i versamenti di quanto dovuto a chi anticipa i propri prodotti, spesso vitali come le medicine, agli utenti, al popolo.
Vedi centinaia di poveri Cristi abbandonati nelle corsie di ospedali napoletani o romani, costretti a sedere sui sedili delle auto smontate dai loro cari e trascinate nei corridoi di quelle strutture cosiddette sanitarie.
Il problema, ormai, non è più tanto legato alla corruzione in quanto reato, ma alla corruzione in quanto sistema.
Quando fenomeni criminali come la corruzione della cosa pubblica penetrano nel tessuto sociale nazionale estendendosi a macchia d’olio, fino a devastare come il peggiore dei tumori il corpo sano dello Stato, hai voglia te di invocare la giustizia, la sua applicazione.
Alla fine, anche i tutori dell’ordine e della legge – di quel law and order così sacro nel mondo anglosassone – entrano di lato o di piatto nel sistema e, vuoi per acquisita indifferenza o pessimismo, compiacimento o adattamento e conseguente beneficio, tirano i remi in barca e non vanno oltre il dovuto tra le montagne di carta che si accumulano quotidianamente sulle loro scrivanie stanche ed ammuffite.
Per il Presidente della Corte dei Conti, avvilito più che mai, sono 60 miliardi gli introiti da corruzione pubblica, mentre l’evasione fiscale nazionale oscilla intorno al 40% circa.
Come a dire che, senza di ciò, saremmo il Paese più ricco d’Europa. Altro che Germania!
Purtroppo, dalle Alpi alle Piramidi di casa nostra il fenomeno della corruzione pubblica è degenerato al punto tale che la gente non ci fa più caso. Sa bene che, per una licenza edilizia, per un appalto pubblico a cui partecipare, per una qualsiasi cosa collegata all’erogazione di contributi pubblici, la mazzetta è d’obbligo.
Tutto funziona a quintali d’olio extravergine, là dove per extra vergine si intendono mazzette opulente. Allora sì che le pratiche camminano, che le licenze vengono firmate nei tempi dovuti, che le costruzioni abusive non vengono viste a dispetto dell’inadempiente che si vede sequestrare casa per il più stupido degli abusi.
Se, poi, alziamo lo sguardo in alto, sempre più in alto, allora sì che l’incredulità assume tinte di verità, per quanto inconcepibile essa sia per gli eterni ingenui in libera circolazione tra le legioni del popolo.
Accusare la classe politica dirigente di ieri e di oggi non è un pregiudizio. La classe politica educa chi le consente di primeggiare a vita sul palcoscenico del potere. Il voto non è altro che la garanzia del privilegio. Privilegio che, una volta conseguito, è duro a morire. E’ sufficiente tenere in caldo quei voti, in cambio dello scambio. Collocare ai piani alti della pubblica amministrazione le teste di legno del portatore di voti garantiti (un sindaco, un amministratore di periferia, un medico della mutua con clientela numerosa e votante) diventa allora una logica contropartita, con il beneficio in più della fedeltà eterna al politico da parte del burocrate raccomandato e promosso sul campo, pur in virtù di titoli per i quali dovrebbe a mala pena accomodarsi al centro della scala.
Così avviene per i concorsi pubblici, così avviene per tutto ciò che, di fatto, dipende dal potere politico. Generalizzare è peccato, il qualunquismo critico è pericoloso e, quindi, poco credibile. Ne siamo certi.
E a chi avesse voglia di mandarci un rimbrotto chiediamo scusa. Non ce l’avevamo con lui o con lei. Così come il Presidente della Corte dei Conti non ce l’aveva con nessuno in particolare. Salvo che con tutti. Con tutti coloro, almeno, che rientrano in quel 36% (per pessimismo abbiamo arrotondato al 40% circa) di evasori che calpestano il rimanente 64% della popolazione in regola con le tasse; ce l’aveva, e ce l’ha, il buon Presidente, con le legioni di corrotti che fanno della PA a cui appartengono terra di conquista, con quei politici che si mettono in tasca decine di milioni di euro sottraendole dalle casse dei partiti ai quali appartengono, con tutta quella feccia che cammina a testa alta, insomma, e che quando ti incontra ti ignora, pur senza aver mai messo piede in fabbrica, in ufficio, in un qualsiasi luogo in cui svetti in alto la parola lavoro.
Bisogno ricominciare daccapo, dall’età scolare, da una società di nuovi cittadini degni di vivere e convivere nel rispetto reciproco e della cosa pubblica. Non è e non sarà a lungo un percorso facile.
Può apparire strano. Ma le rivoluzioni delle idee hanno cambiato il mondo. Nuove rivoluzioni si impongono, nuovi maestri illuminati devono risorgere e guidare la nazione, una nuova etica, né più né meno che l’etica, deve farsi strada.
Accadrà, quando accadrà? Per ora il pessimismo si impone, rassegnati come siamo a convivere con mafia e poteri occulti, corruzione e degenerazione. In breve con quella burocrazia pubblica e cancerosa così invisa al Signor Presidente della Corte dei Conti.