Vallo di Diano: la corsa all’oro nero

Antonio Citera

VALLO di DIANO – Chi tutela il patrimonio naturale e sceglie le energie pulite e rinnovabili, contribuisce alla ricchezza e al futuro del territorio. Uno slogan coniato per difendere il territorio dai signori delle trivellazioni,dai cercatori di oro nero che dopo la colonizzazione della vicina Basilicata, cercano di approdare nel Vallo di Diano.  E’ la shell, il colosso petrolifero Anglo – Olandese, che nei giorni scorsi, con una serie di protocolli, effettuati in alcuni comuni del Vallo di Diano.  Ha chiesto esplicitamente il permesso di poter procedere alla ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi, nelle aree comprese tra i comuni di Atena Lucana, Montesano sulla Marcellana, Padula, Polla, Sala Consilina, Sant’Arsenio, Sassano e Teggiano. Ed ancora in alcuni comuni della già colonizzata Basilicata. L’area prescritta nella richiesta di protocollo, ricade precisamente nella fascia anticlinale che percorre da nord a sud l’Italia, una sorta di mezzaluna  che scorre lungo tutto il fianco dell’Appennino orientale, partendo dalla pianura padana, fino alle colline della Romagna, scendendo in Molise, Basilicata e Puglia, allargandosi  anche alla Calabria Ionica, e toccando anche parte della Sicilia. Un serbatoio naturale, che conserva quasi tutto il greggio che è presente nel sottosuolo del nostro Paese. Un progetto ambizioso quello della Shell, che ha denominato “ Monte Cavallo”.  Una situazione che ha colto di sorpresa i sindaci e le amministrazioni comunali, visto che ci sono voluti alcuni giorni per rendere pubblica la notizia. Intanto, le prime dichiarazioni cominciano ad emergere, il primo che ha dato il suo parere, è stato l’Onorevole Donato Pica, il quale ha invitato le parti interessate e non, ad analizzare bene le possibili cause che un’iniziativa del genere potrebbe provocare sull’ambiente e sulle persone. Nell’attesa delle decisioni che i Sindaci e le istituzioni prenderanno a tal proposito, sperando in un coinvolgimento attivo anche dei cittadini, invito a leggere il dossier che il WWF ha presentato con il titolo”Milioni di regali: Italia, far west delle trivelle”. Ventuno pagine dove si illustrano i dettagli di questa vicenda, sconcertante per la sproporzione tra danno collettivo e interesse privato. In Italia”, riferisce il report, “sono stati estratti nel 2010 tra terra e mare 8 miliardi di metri cubi di gas e 5 milioni di tonnellate di petrolio”. Che a prima vista potrebbe sembrare una quantità enorme, ma non lo è affatto considerando che “il consumo nazionale medio annuo è pari a 93 milioni di tonnellate di petrolio greggio e 63,8 miliardi di metri cubi di metano”. Inoltre, l’Italia è soltanto al quarantanovesimo posto mondiale per barili di petrolio estratto, il che si concretizza in un microscopico “0,1 per cento della produzione complessiva”. Dunque perché, è lecito chiedersi, tanta insistenza nell’impiantare pozzi e piattaforme nelle nostre regioni? E per quale motivo, questa fame di perforazioni, è condivisa da società straniere ma anche dall’italianissima Eni? “Semplice”, risponde Maria Rita D’Orsogna, docente di Fisica all’università californiana di Northridge, nonché icona delle battaglie anti-trivelle: “La legislazione di casa nostra è scandalosa. Nel senso che favorisce al massimo le ditte estrattrici, mortificando invece le aree invase da pozzi e piattaforme”. Il tutto, aggiunge, con “seri rischi per la salute (“molti degli idrocarburi contenenti petrolio hanno un’elevata tossicità per la specie umana”, ricorda il dossier del Wwf) e crescente frustrazione dei cittadini, allarmati per lo sfruttamento ma trascurati dalle autorità nazionali” Il punto chiave, racconta il report ambientalista alla voce “Paradiso fiscale”, è quello contenuto nel decreto legislativo 625 del novembre 1996, dove si illustrano le esenzioni tributarie per chi in Italia estrae gas e petrolio. Nello specifico, “niente è dovuto sotto forma di royalty” da coloro che per ogni concessione estraggono dalla terraferma “entro 20 mila tonnellate di olio greggio e 25 milioni di metri cubi di gas (erano 20 fino al 2010)”, mentre sul fronte mare non ci sono tasse per chi resta “entro 50 mila tonnellate di olio greggio e 80 milioni di gas (erano 50 fino al 2010)”. Una norma discutibile, se si pensa che a fronte delle 136 concessioni di coltivazione a terra, solo in 21 casi nel 2010 c’è stato il pagamento di royalty” e che sul versante mare la proporzione è di 28 a 70. “Se a questo si aggiunge”, illustra il dossier Wwf, “che sulle 59 società attive in Italia, giusto un pugno di grandi gruppi paga le royalty (Eni, Shell, Edison, Gas plus italiana, Eni mediterranea e Idrocarburi)”, il quadro è chiaro. “E visti i risultati, desolante”, dice Luigi Agresti di Wwf Basilicata. Parole non casuali, le sue. “La Basilicata, infatti, è tra gli esempi storici di come le trivelle stiano penetrando il nostro Paese”, riferisce D’Orsogna. “Dalla fine degli anni Novanta, è in atto in Val d’Agri lo sfruttamento dell’Eni di un giacimento da 90 mila barili al giorno”, calcolano al ministero dello Sviluppo economico, con un impatto riassunto in 58 pozzi (39 già perforati, 19 ancora no) e 38 piattaforme, “con una durata del ciclo produttivo attorno ai 20-30 anni”. Il risultato, a oggi, è stato “l’inquinamento di acqua, terra e aria”, scrive il Wwf, mentre in un comunicato dell’Ola (l’Organizzazione lucana ambientalista) titolato “Petrolio, tra miti e falsità”, si spiega che “negli ultimi vent’anni un cittadino lucano su due s’è ammalato di patologie cardiorespiratorie nell’area del centro oli di Viggiano (proprietà Eni)” e che “i malati di tumore sono ormai il doppio della media nazionale”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *