UNIVERSITA’ E LAVORO: IL PARADOSSO ITALIANO

di Michele Ingenito

Che le classifiche internazionali ignorino le università italiane è cosa nota. Che oltre i confini nazionali i nostri laureati si impongano sui loro stessi colleghi stranieri è altrettanto noto. In America o in Norvegia, in Francia o Australia, dove quei giovani sono costretti ad ‘emigrare’ scientificamente, un’altra cosa è certa.

Le locali autorità accademiche difficilmente li mollano, acquisendo, così, due tipi di ricchezze: una, gratuita, e, cioè, la formazione in Italia dei giovani futuri ‘emigranti’ del sapere; l’altra, a pagamento, in cambio di una prestazione d’opera: scientifica e didattica di assoluto valore.
Un bell’affare, non c’è dubbio, di cui l’Italia svolge l’amato ruolo del mai troppo vituperato curtisiano detto: “Ed io pago!”

Ma cos’è che manca nei nostri atenei per essere presi in considerazione all’estero? Da quelli che, con un anglismo di moda, vengono definiti ‘rankings’?

Cominciamo dai campus. Strutture di cui il nostro Paese è praticamente privo e, là dove esistono, hanno molto del campus tradizionale anglosassone dal p.d.v. dell’appariscenza (spazi enormi tra il verde in  piena campagna) e molto poco dal p.d.v. pratico e funzionale: carenti collegamenti con le città, trasporti inefficienti, caos indiscriminato di risorse strutturali camuffate da servizi inefficienti o inesistenti e, quindi, spesso inutilizzate, servizi di qualsiasi tipo interrotti dopo le 17.00 e conseguente metamorfosi in vere e proprie cattedrali nel deserto fino al giorno dopo. Isolamento, quindi, che neutralizza tutti gli ingenti capitali pubblici investiti per un bene comune che funziona a metà.

Nelle nostre università, salvo lodevoli eccezioni limitate a singoli casi, le lezioni, poi, non sono svolte in inglese in tutte le discipline esistenti, la docenza attinge pochissimo (forse solo in qualche università privata di riconosciuta qualità) a quella straniera, riducendo notevolmente il tasso di competitività internazionale, l’accesso al credito in sostituzione o ad integrazione degli assegni di studio sembra di là da venire. Il che danneggia, a sua volta, i cervelli più dotati, perché non economicamente supportati da famiglie agiate.

Lo stesso confronto della cultura con il mondo del lavoro è carente, né quest’ultimo fa molto per incoraggiare un fenomeno collaborativo da cui potrebbe trarre notevole vantaggio.

Se a tutto ciò si aggiungano iniziative accademiche da brivido in più di un ateneo, là dove imperano da sempre le stesse teste di comando, non ci si deve meravigliare che all’estero ci guardino dall’alto in basso: benché come sistema e non come individualità.

Del resto il fallimento delle lauree brevi testimonia proprio questo. L’autonomia universitaria italiana così come interpretata nel decennio 2001-2011 non è stato altro che un fenomeno degenerativo dei luoghi sacri della cultura, intesi né più né meno che come vere e proprie centrali di collocamento presso cui sistemare, a centinaia, personaggi noti per cognome più che per zucca. Peccato, un vero peccato!

 

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