La questione dell’acqua è ancora al centro dei dibattiti internazionali che attanagliano il futuro processo di pace in Medio Oriente e le sorti della risoluzione del conflitto ancora aperto tra Israele e Palestina. La faccenda dell’acqua è storica e connaturata nei dissidi tra palestinesi e israeliani. Molte delle guerre combattute e di quelle ideologiche, portate tutt’oggi avanti da dispute verbali, che hanno per protagonisti Israele, Palestina, Libano, Siria, Giordania, Iraq e Iran, sono guerre per la gestione e l’approvvigionamento delle acque, in un’area caratterizzata da una forte penuria idrica. Un rapporto francese pubblicato lo scorso dicembre sulle forti sperequazioni dell’acqua nella regione ha provocato la collera dello Stato sionista. Il deputato socialista francese, Jean Glavany, ha descritto la questione come “rivelatrice di un nuovo apartheid in Medio Oriente”. “Gli israeliani considerano l’acqua come una questione afferente alla sfera militare, rendendo, così, vano ogni dibattito e progetto teso a riequilibrare l’utilizzo della risorsa”, ha commentato Pierre Berthelot, ricercatore presso l’Istituto francese di Analisi Strategica, nell’edizione di gennaio-febbraio della rivista “Questions internationales”. La questione spinosa dell’acqua era già stata considerata durante gli accordi di Oslo II nel 1995, ma non è stata poi riportata sui tavoli internazionali nel 2000, così come era stato previsto. La definizione del prelevamento delle acque è stato un punto cruciale degli accordi di Oslo II, secondo cui in Cisgiordania è possibile avviare attività di perforazione previa autorizzazione rilasciata dal Joint Water Committee, un comitato misto, composto da israeliani e palestinesi. “Nella pratica , però, sono gli israeliani che prendono decisioni in merito a proposte avanzate da connazionali, tendendo a ignorare quelle dei palestinesi”, ha sottolineato Stéphanie Oudot, vicepresidente del dipartimento di acque e depurazione presso l’Agenzia francese di sviluppo. Il rapporto evidenzia l’enorme margine di discrezionalità di Israele e la disparità dei consumi delle risorse, illustrando che i 450 mila coloni israeliani in Cisgiordania fanno uso di una quantità di acqua maggiore rispetto a quella utilizzata da 2,3 milioni di palestinesi. E ancora, nel rapporto si sottolinea la distruzione sistematica causata dall’esercito israeliano di pozzi costruiti spontaneamente dai palestinesi, a causa della reticenza israeliana a rilasciare i permessi. Per la grave penuria di risorse idriche, i palestinesi sono costretti ad acquistare l’acqua municipale che è a buon mercato, ma in quantità limitate, per non parlare poi della sua qualità: spesso dette acque sono contaminate, provocando patologie croniche. L’assenza di cooperazione tra le due parti e la carenza di stabilimenti di depurazione in Cisgiordania, eccetto quello di Ramallah, fa sì che i Palestinesi siano fortemente dipendenti da Israele per quanto riguarda la fornitura di acqua potabile. A Gaza, contrariamente a quanto accade in Cisgiordania, i palestinesi possono perforare il suolo per attingere alle acque delle falde freatiche liberamente. Migliaia di abitanti si sono dotati di un proprio pozzo, ma il prelevamento di acque è massiccio in quanto anche Israele attinge alle stesse falde. Tale sfruttamento consente la penetrazione nel suolo delle acque salate del mare e, a causa della mancanza di strumenti per la desalinizzazione, gli abitanti di Gaza non possono bere l’acqua del rubinetto. Detti impianti sono molto onerosi e , per questo motivo, a disposizione solo di Israele. E’ doveroso sottolineare che Gaza si estende su un territorio di 360Kmq con una popolazione di circa 1.700.000 unità che esercita forti pressioni sul suolo e sulle già scarse risorse idriche. La situazione di stallo del processo di pace tra Palestina e Israele potrebbe essere smossa da una cooperazione nell’ambito della gestione delle risorse idriche, in quanto indubbio vettore per la costruzione della fiducia tra i due popoli.