La giornata di ieri ha segnato, nella storia delle relazioni industriali, una svolta importante. Dopo anni, per la prima volta Fiat esce da Confindustria, la principale associazione organizzativa in Italia, nata nel 1920, rappresentativa delle imprese manifatturiere e dei servizi. Confindustria rappresenta più di 140.000 imprese su tutto il territorio, che occupano più di 5 milioni di addetti nei vari comparti. Nella provincia di Salerno rappresenta i gruppi industriali e le imprese più dinamiche, con un numero di associati che supera le cento unità. La Fiat è uno dei principali gruppi industriali italiani ed internazionali; in Italia ha attualmente sei stabilimenti produttivi (Torino-Mirafiori, Cassino, Pomigliano D’Arco, Melfi, Castel di Sangro e Termini Imerese) e circa 77.000 addetti, senza contare l’indotto che si è creato nelle zone attorno agli impianti. Motivo dell’uscita del gruppo Fiat, come dichiarato da Sergio Marchionne: l’accordo interconfederale del 21 Settembre tra l’associazione industriali e le sigle sindacali (CGL, CISL e UIL), che prevede forti limitazioni e che renderebbe di fatto di scarsa applicazione la nuova legge introdotta dalla manovra finanziaria di Luglio, nell’articolo 8, che prevedeva maggiori flessibilità nel mondo del lavoro, licenziamento anche senza giusta causa e prevalenza dei contratti di lavoro territoriali o aziendali sui contratti nazionali. La Marcegaglia, pur accettando la decisione dei vertici di Torino, ha comunque espresso forti perplessità sulla loro decisione di uscire dall’associazione, visto anche il fatto che lo stesso Agnelli è stato presidente Confindustria nel lontano 1974. A prescindere da ogni considerazione in merito alle scelte dell’amministratore delegato della Fiat di uscire da Confindustria, un dato è certo: questa decisione segna una modifica importante sul versante delle cosiddette Relazioni Industriali. Quello che si vuole fare in Fiat è andare a contrattare in maniera individualistica i rapporti tra azienda e lavoratori, dove, ovviamente il peso di una multinazionale o di una grande impresa come quelle automobilistiche, ad esempio, avrebbe un peso specifico maggiore rispetto a qualsiasi organizzazione di lavoratori o sindacali, potendo avere un potere decisionale molto forte. Con la contrattazione individuale chi ne beneficerà maggiormente sarà solo il consiglio di amministrazione con la dirigenza e gli azionisti ma di sicuro non i lavoratori che si vedranno costretti, in quanto parte debole, ad accettare continuamente delle clausole vessatorie pena la perdita del posto del lavoro ed il conseguente trasferimento della produzione all’estero. Si potrebbe obiettare che in tal modo, ossia con un costo del lavoro minore, si salverebbero comunque dei posti di lavoro, come sostengono i detrattori della politica di Marchionne, che invece non può essere garantito dai contratti nazionali poco flessibili e lontani dalle logiche di territorio. La domanda da porsi è importante, soprattutto in questo periodo molto delicato per l’Europa e l’Italia, ossia siamo sicuri che questi contratti aziendali o territoriali siano la giusta soluzione al problema occupazionale dei paesi sviluppati? E’ importante infatti notare che, se si basa la produzione esclusivamente sul costo del lavoro non ci sarà contratto aziendale o territoriale che tenga in Europa, in quanto qualsiasi operaio in Cina, Messico, Vietnam o Egitto sarà sicuramente molto più conveniente in termini monetari, e i grandi gruppi industriali avranno sempre il coltello dalla parte del manico per ridurre i diritti. La soluzione? Ridurre i costi si, ma in termini di sprechi e, come da caratteristica distintiva del Made in Italy, puntare sulla qualità e la formazione dei propri dipendenti per combattere la concorrenza sul prodotto e non sul suo costo. Ridurre diritti e busta paga, a mio avviso, influisce solo in maniera negativa sulla motivazione dei dipendenti compromettendone l’output aziendale (ossia il suo prodotto o servizio finito).